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Vol. V/2007

RIVISTA DI DIRITTO DELL’ECONOMIA,

DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE

 

 

Laicita’ e simbolismo religioso

Salvatore Piraino*

 

Sommario:  1. La laicità dello Stato. -  2. La croce e i principi identitari dell’ordinamento giuridico italiano.

 

 

1.  La laicità dello Stato

 

“La laicità dello Stato non significa indifferenza di fronte all’esperienza religiosa ma comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni”. Così la Corte costituzionale (sentenza n. 329/1997) individua tale principio costituzionale, che si porrebbe a suprema salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale.

In dottrina si precisa che, nel moderno Stato sociale, la laicità non comporterebbe agnosticismo né indifferentismo, ma semplicemente aconfessionalità o non confessionalità. Da ciò conseguirebbe che l’azione dei pubblici poteri non possa in alcun modo assumere determinazioni su questioni riguardanti la religione senza pregiudicare la pari dignità delle confessioni religiose e la loro libertà.

La laicità, se è vero che presuppone l’esistenza di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, reputandosi funzionale all’affermazione della libertà di coscienza, si atteggia insieme come condizione e limite del pluralismo, perfezionandosi nella neutralità, che impone allo Stato di essere equidistante ed imparziale rispetto ad ogni visione della vita.

Secondo la cosiddetta “ideologia dello Stato laico”, la laicità è un valore culturale, che assurge a principio giuridico nel momento in cui tale valore sia condiviso dalle persone che formano una determinata società. Di esso, tuttavia, non può omettersi il rilievo che tenda a risolversi in un inconsistente flatus vocis, per la duttilità concettuale che lo caratterizza, tanto da fargli assumere le significanze più diverse, secondo le circostanze e le occorrenze. Si osserva in dottrina come la laicità non sia un valore acquisito, semplicemente desumibile attraverso l’analisi del dato normativo di un ordinamento, ma essa è un concetto morale astratto che si riempie di un contenuto storico specifico.

Pur prospettata la laicità come principio posto a tutela della pacifica convivenza delle persone, nelle società pluraliste e multiculturali, ciò non esclude che lo Stato laico si atteggi anche come uno Stato etico quando si renda portatore di valori che nella assoluta “asetticità” trovano il miglior modo di affermarsi: valori che nell’individualismo, inteso come ogni rivendicazione dei diritti del singolo contro la sua subordinazione a un sistema che lo trascenda, colgono la loro sintesi sfociando sovente nella configurazione di un’individualità egoistica, che esalta soprattutto la libertà dell’individuo di perseguire il suo tornaconto per assicurare il proprio benessere, rispetto al quale si pone come eventuale il benessere della comunità voluta dagli individui e ordinata al bene degli stessi individui.

L’utilitarismo, che confluisce in questa concezione, acquisterebbe un certo tono di effettiva moralità se non scadesse in un utilitarismo puramente egoistico, sprezzante, piuttosto che asettico, nei confronti di ogni visione della vita, la cui tutela tuttavia si richiede essenzialmente al fine di determinare il conveniente punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze dei diversi gruppi religiosi e degli stessi cittadini che religiosi non sono, il quale attenui o renda tollerabile ogni possibilità di contrasti.

Nell’era tecnologica, ritenere che lo Stato laico possa riuscire ad abbandonare un atteggiamento di acritica ed astratta constatazione delle molte etiche della realtà contemporanea, per riuscire a rapportarsi con esse, nella comune ricerca del progresso della società umana, appare poco probabile in un tempo in cui peraltro la società umana si mostra sempre più dipendente dall’economia, dalla scienza e dalla tecnologia, confidando in esse per il raggiungimento del maggior benessere generale.

Poiché non si può fronteggiare la morale se non facendo della morale, l’intento di mantenersi equidistante in ogni conflitto fra le varie etiche conduce la neutralità dello Stato moderno a rinvenire il movente della propria azione in un individualismo che in larga misura si identifichi col pluralismo e, quindi, nella laicità che, per l’elasticità della sua concezione, può tornare utile per tutte le stagioni, anche nella niente affatto remota eventualità che, posta la liceità come funzionale alla libertà di coscienza, con essa si mirasse artatamente a promuovere la fede nella libertà magnificata, così fornendosi l’ordinamento giuridico di una base etica, che però, invece di favorire la coesione dei cittadini, ne accentuerebbe la frammentazione in gruppi di pressione.                                     

La persistente incertezza e confusione sul significato della laicità non rende certamente agevole la considerazione delle varie questioni collegate al problema della laicità dello Stato, rispetto alle quali si osserva in dottrina come appaia poco esaustiva la semplice valutazione della realtà normativa del diritto positivo, non potendosi prescindere dalla costante dialettica tra il dato normativo e i molteplici interessi che si rivelano nell’ambito della realtà sociale, tanto più se si è di fronte ad una normazione disordinata e ad un quadro normativo tutt’altro che ben definito, con numerosi elementi di contraddizione e di difficile interpretazione.

Il concetto di laicità, prestandosi ad essere inteso in una enorme varietà di accezioni, finisce col rendere evanescente la stessa configurazione dello Stato laico, nel quale in definitiva sembra rimettersi al mero arbitrio ogni questione in materia di religione e di etica generale concernente il rispetto dei relativi valori, nella piena libertà di dare al rispetto i contenuti che possano ritenersi più opportuni, sia pure nell’ottica dei valori sociali attinenti alla condizione terrena dell’uomo e, quindi, degli interessi temporali dei cittadini, nelle loro dimensioni etiche o spirituali.

 

2.   La croce e i principi identitari dell’ordinamento giuridico italiano

 

In una società democratica e pluralista, che evolve in senso multietnico e multiculturale, è inevitabile il contrasto fra modelli e comportamenti derivanti da culture e religioni diverse, ponendosi il problema di stabilire entro quali limiti vada tutelato il diritto dei singoli e dei gruppi, confessionali e non, di esprimere e di praticare le proprie idee e fino a qual punto queste possano influire sulle determinazioni dell’intera collettività. In altri termini, si discute sempre più vivamente sui limiti che una società democratica e pluralista incontrerebbe nella scelta e nell’imposizione di determinati modelli comportamentali, suscettibili di contrastare con le convinzioni spirituali o etiche di una parte dei cittadini.

Uno dei casi di conflitto attualmente si è rinvenuto nel problema dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche o, più in generale, negli edifici pubblici. Il caso è emblematico, perché l’approccio a tale problematica rivela i funambolismi con cui le pubbliche istituzioni si sforzano di dimostrare che lo Stato è più laico della società civile, di una società in cui la maggioranza cattolica sembra ormai avere acquisito uno spirito laico, rinunziando da tempo al tentativo di conquistare al suo credo gli altri consociati e disattendendo disinvoltamente le indicazioni e gli insegnamenti della Chiesa di Roma, quando questi siano in contrasto con gli aggiornamenti della scala dei valori sollecitati dall’evolversi dei costumi nel dissolversi delle idee.

Alla luce delle enunciazioni della Corte costituzionale (sentenze n. 203/1989, n. 259/1990, n. 195/1993 e n. 329/1997) sulla laicità dello Stato come principio supremo dell’ordinamento costituzionale, il quale “comporta equidistanza e imparzialità della legislazione (o delle pubbliche autorità) rispetto a tutte le confessioni religiose”, si è sviluppato un articolato orientamento giurisprudenziale, che ha affrontato sotto vari profili la questione della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche pubbliche.

Si è discusso sull’esistenza di disposizioni che impongano l’esposizione del crocifisso nelle scuole, nonché sulla loro natura regolamentare o no, come pure sulla sopravvenuta abrogazione di dette disposizioni, contenute nei regolamenti degli anni ’20, ad opera di norme successive. Si è anche posto il problema della legittimità di tale normativa, se ancora in vigore, alla stregua dei precetti costituzionali e, in particolare, del principio di laicità dello Stato. E migliore considerazione non poteva riservarsi ad un simbolo religioso, quando si è perfino tentato di individuare la fonte dell’obbligo di esposizione del crocifisso nella normativa sull’istruzione scolastica che si occupa degli arredi scolastici, il cui acquisto, manutenzione e rinnovamento spetta ai Comuni e che include il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche (ordinanza Corte cost. n.389/2004).

Ritenuti, se pure non pacificamente, superati i regolamenti sulla presenza del crocifisso nelle scuole, si è individuata la fonte di tale presenza in una mera consuetudine radicata, da rispettarsi a certe condizioni, se ed in quanto cioè al crocifisso si attribuisca un valore culturale, nel senso di configurarlo come un simbolo popolare facente parte della tradizione del popolo italiano, tanto da rinvenire in esso un elemento identitario sulla base del suo valore storico e culturale.

Non sono mancati neanche i contrasti sulla giurisdizione, in ordine al carattere discrezionale o no dell’azione della pubblica Amministrazione sulla materia di che trattasi ed alla natura giuridica degli interessi lesi.

Quasi tutti gli orientamenti giurisprudenziali ruotano intorno alla questione del senso da attribuire ai contenuti di cui presumibilmente non sarebbe privo il concetto di laicità, indulgendo ora sulla neutralità, o sull’asetticità, o sull’indifferenza, e via dicendo.

L’indifferenza sembrerebbe stimolare un recente giudizio del giudice amministrativo (TAR Lombardia, Brescia, 22 maggio 2006), che, sfiorando le problematiche connesse al valore proprio del crocifisso, affronta la questione della sua presenza o no nelle aule scolastiche muovendo dall’assunto che tale simbolo religioso, anche esprimendo messaggi universali, apparterebbe comunque alla sfera della coscienza e delle libere scelte individuali. Sicchè, andrebbe rimessa all’autonomia delle istituzioni scolastiche, che “è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale” (art. 1 D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275), la soluzione del problema dell’affissione o no del crocifisso nelle aule scolastiche, in mancanza di un’espressa previsione di legge che disponga in proposito: soluzione da adottare, da parte dell’autorità scolastica, nel pieno rispetto del metodo democratico, attraverso il coinvolgimento di insegnanti, studenti e genitori, negli appositi organismi collegiali rappresentativi.

Appare indubbiamente riduttivo e semplicistico correlare acriticamente la croce come simbolo religioso con la questione della sua presenza o no in un’aula scolastica o edificio pubblico, senza soprattutto inquadrare tale simbolo nell’ambito della realtà ordinamentale alla luce dei suoi complessi significati, rispetto ai quali col principio di laicità non v’è presunta contrapposizione che non rischi di alterare la fisionomia stessa dell’ordinamento giuridico.

In proposito, una sensibile ed attenta giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. VI, 13 febbraio 2006, n. 556) ha affermato come il crocifisso non assuma significato discriminatorio sotto il profilo religioso, ma rappresenti e richiami, in forma sintetica immediatamente percepibile e intuibile (al pari di ogni simbolo), l’origine religiosa di valori civilmente rilevanti, e chiaramente di quei valori di uguaglianza, di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che caratterizzano il nostro ordinamento giuridico e dai quali non può prescindere il principio di laicità dello Stato, pur nella indeterminatezza del suo contenuto.

I principi costituzionali di libertà si radicano indubbiamente anche nel Cristianesimo, nella sua essenza. Sicchè, sarebbe paradossale e contraddittorio escludere un segno cristiano da una struttura pubblica in nome di una laicità che certamente trae alimento da quei valori di accettazione e di rispetto d’ogni prossimo che, costitutivi delle fondamenta e dell’architrave del Cristianesimo, sono stati trasfusi nei principi costituzionali di libertà dello Stato, “sancendo così visivamente, ed anche in un’ottica educativa, la condivisione dei principi fondamentali della Repubblica italiana con il patrimonio cristiano” (TAR Veneto, Venezia, sez. III, 22 marzo 2005, n. 1110).

L’assunto del crocifisso come espressione di fondamentali principi che connotano la nostra società civile, oltre che simbolo di una particolare storia, cultura e identità nazionale, lungi dal porre un’equazione tra italianità e cristianità, che potrebbe sospettarsi a discapito dell’ispirazione pluralista e democratica dell’ordinamento vigente, da taluno si considera rivelatore di una configurazione simbolica complessa del crocifisso, il cui significato sarebbe comprensivo non solo di quello religioso, ma anche di quello storico-culturale, che segnerebbe il recupero del carattere lato sensu identitario del simbolo. Anche se, com’è stato opportunamente osservato, in fondo il crocifisso rappresenta tutti, perché prima di Cristo nessuno aveva mai enunciato l’uguaglianza di tutti gli uomini, ricchi e poveri, credenti e non credenti, neri e bianchi, “e nessuno prima di lui aveva mai detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini”.

D’altra parte, il pluralismo culturale non significa occultazione o mortificazione delle identità, ma se il crocifisso è simbolo della cultura di una società civile, tale cultura deve essere rispettata dalle altre in essa presenti, così come queste quella deve rispettare.

L’identità della nostra società civile è incontestabilmente costituita anche dalla tradizione cristiana. Sicchè il crocifisso, nel suo significato composito, appartiene a tutti ed a pieno titolo se ne può disporre l’esposizione negli edifici pubblici, senza che ciò si ponga in contrasto con la libertà di coscienza, quando appunto il simbolo assuma valore per l’intera società civile, pur nel contesto di una pluralità di culture e, quindi, di etiche. La croce è, infatti, un simbolo polivalente, portatore di una pluralità di valori, oltre che religiosi, legati ad una cultura determinata ed anche universali dal punto di vista umano. Basti ricordare che il Cristianesimo non solo è parte integrante delle nostre radici culturali, ma la croce si considera addirittura come simbolo riassuntivo delle fondamenta culturali della società europea.

In effetti, non si tratta di assumere come preminente la cultura tradizionale né di imporla, perché ciò rappresenterebbe comunque la negazione del principio di libertà, ma soltanto di preservare una determinata identità, sintesi di un processo storico-culturale di cui il popolo italiano è autore e protagonista e che reca in se le luci e le oscurità impenetrabili, in grembo alle quali maturano le grandi risoluzioni storiche.

Tale identità, risultato di trasformazioni laboriosissime e di adattamenti graduali talvolta lentissimi, è un patrimonio di valore morale e pratico inestimabile, che la costruzione tanto auspicata di un diritto effettivamente multiculturale non può mortificare, stravolgendo i nostri stessi valori e tradizioni, che sono tradizioni romano-cristiane, di cui la Cattolicità è espressione.

L’ostilità, in vari modi ed occasioni manifestata nei confronti dell’esposizione del crocifisso negli edifici pubblici, mal dissimula ciechi vieti pregiudizi anticattolici nell’eguagliare la Chiesa Cattolica, per la solita tirannia dei concetti generali, ad una qualsiasi conventicola o setta di non importa qual fede o convinzione, obliterando che essa è l’espressione titanica della grandezza romana divenuta spirituale e, quindi, è anche grandezza italiana. Nessun’altra delle religioni, anche di quelle cosiddette “mondiali”, ha mai avuto il genio organizzatore, tutto romano, del Cattolicismo, capace di raccogliere e guidare la societas gentium maxima in una società religiosa universale perfetta.

Se è inscindibile il nesso tra laicità ed eguaglianza, non può sottacersi che, come insegnò già Platone, la vera eguaglianza non consiste nel trattare egualmente enti diseguali, sì bene nel trattarli disegualmente.                                                

 

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* Docente di diritto pubblico e di diritto amministrativo, facoltà di economia, Università degli Studi di Palermo.

 

Data di pubblicazione: 31 luglio 2007.