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Vol. IV/2006

Casella di testo:  Rivista di Diritto dell'Economia, dei Trasporti e dell'Ambiente
	                                                                         
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Le società e le associazioni sportive[1]

 

 

                                                   Nicola Andreozzi* - Augusto Saija*

 

I - Premessa

II - Le società professionistiche

III - Le società sportive dilettantistiche

IV - Problemi di coordinamento tra le due discipline: il c.d. professionista di fatto e la sua prestazione

 

I - Premessa

Con il termine “società sportive” si intendono, nel linguaggio comune, quegli Enti a base associativa che operano nel mondo dello sport.

Tale qualificazione imporrebbe, innanzitutto, di specificare, il concetto di sport.

Una definizione la si può rinvenire dalla Carta sportiva europea del consiglio di Europa, secondo la quale, per sport deve intendersi “qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o meno, abbia per obiettivo l'espressione ed il miglioramento della condizione fisica e mentale, con la promozione della socializzazione e/o con il conseguimento di risultati in competizioni a tutti i livelli”.

Occorre rilevare, tuttavia, che in base a detta schematica definizione l'orizzonte entro cui circoscrivere l'attività sportiva si amplierebbe ben aldilà di quello che è lo sport di tutti i giorni che ben conosciamo ed, al contempo, che regole e norme da osservare rimarrebbero le medesime in un universo di attività sportive diversificate negli obiettivi e nelle finalità.

Ritornando al concetto di società sportive occorre premettere che tale locuzione viene utilizzata, nel gergo comune, anche con il termine di “associazioni sportive”. Appare evidente, tuttavia, che i due concetti, dal punto di vista giuridico, sono ben diversi[2][AS1] , con tutte le conseguenze che ne derivano sotto il profilo regolamentare.

Dal punto di vista civilistico, infatti, sono ammesse tanto le società, quanto le associazioni sportive, con queste ultime sia nella forma di associazioni riconosciute sia di quelle non riconosciute.

Le società o associazioni sportive non sono tenute a costituirsi sotto una particolare forma giuridica, ad eccezione di quelle professionistiche ed, in ogni caso, qualora intendano stipulare contratti con gli atleti.

La principale peculiarità delle “società sportive” in senso ampio consiste nel porsi come soggetti tanto nell’ordinamento generale dello Stato, quanto in quello sportivo.

La loro prima apparizione risale alla legge 426 del 16 dicembre 1942, con la quale è stato istituito il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI), al quale è stato attribuito l'ampio potere di riconoscere le suddette “società”; queste ultime dovevano essere assoggettate al CONI o, per delega, alle federazioni sportive, per divenire, altresì, soggetti dell’ordinamento sportivo. Il mancato riconoscimento o la non affiliazione delle società, comportava, inoltre, quale effetto, la rinuncia alla pratica agonistica ed ai vantaggi di ordine fiscale previsti dall’inquadramento nell’organizzazione ufficiale.

Lo scopo di dette “società”, in linea di principio, non dovrebbe essere di lucro; anzi, questo è stato rigorosamente vietato sino ad un recente intervento in materia di società professionistiche[3], di cui si dirà, in base al quale dette società hanno potuto reperire e gestire notevoli flussi finanziari.

Come detto, però, essendo lo scopo di lucro una eccezione limitata alle società professionistiche, per tutte le altre, nel caso di eventuali utili conseguiti, questi dovevano essere destinati al potenziamento dell’attività sociale o in beneficenza. L’unica autonomia residua era scegliere la loro destinazione.

 

II - Le società professionistiche

Come vedremo, ricadono sotto tale definizione soltanto quelle che risultano affiliate a Federazioni che operano la distinzione dall’attività dilettantistica da quella professionistica e, inoltre, stipulano contratti con atleti professionisti.

La materia è disciplinata dalla Legge 23 marzo 1981, n. 91  recante  norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti.

L’art. 2 della citata legge definisce il c.d. professionismo sportivo ai fini dell’applicazione delle norme ivi previste, stabilendo che sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l'attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell'ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l'osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell'attività dilettantistica da quella professionistica.

Sportivo professionista, dunque, è ritenuto colui il quale, riconosciuto da una federazione sportiva della quale rispetterà il regolamento, presta la sua attività sportiva in forma continuativa, dietro compenso derivante da un contratto di lavoro con una società sportiva.

In base all’art. 3 della citata legge la prestazione a titolo oneroso dell'atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato regolato dalle norme contenute nella presente legge.

Lo stesso art. 3, al contempo, prevede, però, alcune ipotesi in cui la prestazione offerta dal professionista sia oggetto di contratto di lavoro autonomo ed in particolare quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti:

a) l'attività sia svolta nell'ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo;

b) l'atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione od allenamento;

c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno.

Nella premessa si è accennato all’ampia libertà di scelta della forma giuridica delle “società sportive”, salva l’ipotesi di quelle professionistiche.

L’art. 10, in tema di “costituzione ed affiliazione”, dispone, infatti, che possono stipulare contratti con atleti professionisti solo società sportive costituite nella forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata.

Se una delle summenzionate forme societarie è necessaria per le società professionistiche, le stesse, prima ancora di procedere al deposito dell'atto costitutivo a

norma dell'articolo 2330 del codice civile, hanno necessità di ottenere l'affiliazione da una o da più federazioni sportive nazionali riconosciute dal CONI (art. 10 L. cit.).

Gli effetti derivanti dall'affiliazione restano sospesi fino all'adempimento degli obblighi di cui all'articolo 11. Detto articolo prevede che dette società, entro trenta giorni dall'iscrizione nel registro delle imprese a norma dell'art. 2330 del codice civile, devono depositare l'atto costitutivo presso la federazione sportiva nazionale alla quale sono affiliate. Devono, altresì, dare comunicazione alla federazione sportiva nazionale, entro venti giorni dalla deliberazione, di ogni avvenuta variazione dello statuto o delle modificazioni concernenti gli amministratori ed i revisori dei conti .

Infine, sempre con riferimento all’affiliazione, è previsto che la stessa possa essere revocata dalla federazione sportiva nazionale per gravi infrazioni all'ordinamento sportivo e che la revoca determina l'inibizione dello svolgimento dell'attività sportiva.

Come già accennato, per le “società sportive” in generale, il fine di lucro era rigorosamente vietato.

Tuttavia, dapprima si pose un problema con le società calcistiche formatesi sottoforma di s.p.a. le quali, proprio in considerazione della forma societaria scelta apparivano chiaramente in contrasto con l’assenza del fine di lucro, proprio delle “società o associazioni sportive”.

La legge n. 91 del 1981, imponendo la forma societaria per quelle professionistiche, ha dovuto prendere in considerazione la non remota eventualità di un utile societario.

Era stabilito, infatti, che dette società, nell’atto costitutivo, dovevano prevedere l’obbligo di reinvestimento degli utili conseguiti per l’esclusivo perseguimento dell’attività sportiva.

Successivamente, è intervenuto il D.L. n. 485 del 1996, voluto fortemente dall’ambiente calcistico, che ha portato importanti innovazioni alla disciplina delle società professionistiche. Quella maggiore è rappresentata proprio dalla possibilità concessa a siffatte società di avere fine di lucro.

L'art. 4 del predetto D.L. 20 settembre 1996, n. 485, convertito nella L. 18 novembre 1996, n. 586, che ha novellato parte dell’art. 10 della L. n. 91 del 1981, dopo aver disposto che atto costitutivo deve prevedere che la società possa svolgere esclusivamente attività sportive ed attività ad esse connesse o strumentali, ha stabilito che lo stesso atto costitutivo preveda che una quota parte degli utili, non inferiore al 10 per cento, sia destinata a scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva .

In definitiva, dunque, pur con una limitazione al reinvestimento “mirato” degli utili, per la prima volta, è stato ammesso il fine di lucro delle società sportive professionistiche, così consentendo alle stesse anche la possibilità di entrare nel mercato borsistico.

La stesso intervento legislativo, proprio in considerazione, probabilmente, dell’ammissibilità del fine di lucro ed a tutela dei soci, il cui numero è generalmente molto elevato, ha previsto, in deroga all'articolo 2477 del codice civile, che è in ogni caso obbligatoria, per le società sportive professionistiche, la nomina del collegio sindacale.

Altra importante novità introdotta dal D.L. 20 settembre 1996, n. 485, convertito nella L. 18 novembre 1996, n. 586 è rappresentata dalla disposizione del novellato art. 12 della L. n. 91/81, in base alla quale le società di cui all'articolo 10 sono sottoposte, al fine di verificarne l'equilibrio finanziario, ai controlli ed ai conseguenti provvedimenti stabiliti dalle federazioni sportive, per delega del CONI, secondo modalità e princìpi da questo approvati .

Tra le altre norme rilevanti per le società professionistiche, occorre far menzione dell’art. 13 della legge in materia, anch’esso novellato dal richiamato intervento legislativo, secondo cui il  procedimento di cui all'articolo 2409 del codice civile si applica alle società di cui all'articolo 10, comprese quelle aventi forma di società a responsabilità limitata; il potere di denuncia spetta anche alle federazioni sportive nazionali.

Infine, merita un cenno la questione del fallimento delle società sportive professionistiche.

L’assoggettabilità alla procedura concorsuale, se poteva considerarsi discutibile prima che venisse ammesso lo scopo di lucro, con una propensione, anche allora, alla tesi favorevole, essendo innegabile l’attività imprenditoriale che sorregge dette società, oggi appare indiscutibile.

 

III - Le società sportive dilettantistiche

Esaminate ed inquadrate le società professionistiche, tutte le rimanenti vanno annoverate tra le società dilettantistiche, le quali, appunto, sono quelle che non intrattengono rapporti con atleti professionisti e, ancor meno, perseguono fini di lucro.

Il legislatore italiano, pur rinunciando a fornire una definizione normativa di “associazione sportiva dilettantistica” (la quale, pertanto, potrà essere definita mediante un sistema di individuazione c.d. de residuo, ossia classificando come tali quelle che non possono essere ritenute professionistiche), alla stregua di quanto – invece – è stato fatto per quelle professionistiche (con la L. 91/81), ha introdotto all'interno dell'Ordinamento Giuridico una norma che consente di individuare, quantomeno sotto il profilo civilistico, gli enti sportivi che svolgono, appunto, attività dilettantistica.

L'art. 90 della legge 289/2002 (c.d. Legge finanziaria 2003), entrata in vigore il 1° gennaio 2003, infatti, ha indicato  le peculiarità che devono possedere quegli enti che ambiscono ad essere qualificati associazioni o società sportive dilettantistiche. In particolare, il comma 17 del citato articolo stabilisce che “Le società e associazioni sportive dilettantistiche devono indicare nella denominazione sociale la finalità sportiva e la ragione o la denominazione sociale dilettantistica e possono assumere una delle seguenti forme:

a) associazione sportiva priva di personalità giuridica disciplinata dagli articoli 36 e seguenti del codice civile;

b) associazione sportiva con personalità giuridica di diritto privato ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361;

c) società sportiva di capitali o cooperativa costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che prevedono le finalità di lucro”.

Dunque, in base al predetto dato normativo, è anzitutto necessario inserire nella ragione o denominazione sociale dell'ente che lo stesso svolga attività sportiva (ad esempio, circolo canottieri, circolo tennistico, circolo atletico etc) e l'ulteriore indicazione che questa attività sia espletata in maniera dilettantistica (ad esempio, circolo canottieri associazione sportiva dilettantistica). Si tratta, si badi bene, di una modifica necessaria per poter godere (almeno) delle agevolazioni fiscali che vengono riservate a tali enti, dal momento che senza detta indicazione, mancherebbe il presupposto essenziale per il riconoscimento dell'ente quale sodalizio sportivo dilettantistico.

In secondo luogo, il predetto comma ha altresì indicato tassativamente la forma giuridica necessaria dell'ente dilettantistico per essere considerato tale: più precisamente, esso può rivestire la veste giuridica di associazione (munita o meno del riconoscimento giuridico ai sensi del DPR 361/2000) ovvero quella di società di capitali (Spa, Srl o Sapa), purché non sia perseguito lo scopo di lucro.  La possibilità, infine, che l'ente dilettantistico possa assumere anche la forma di società cooperativa (la disposizione originaria consentiva solamente di costituire enti associativi ed enti societari, disciplinati dal titolo V del codice civile che, come è noto, non contempla le cooperative, disciplinate, invece, dal successivo titolo VI) la si deve ad un intervento successivo del legislatore che, anche al fine di porre fine alle numerosissime critiche rivolte dagli operatori che non comprendevano la ratio dell'esclusione di tale tipologia societaria (considerato, tra l'altro, che erano moltissime le società sportive che rivestivano tale forma giuridica e che la cooperativa, per sua natura, non può avere uno scopo di lucro, quantomeno soggettivo), ha emanato il D.L 22 marzo 2004 n. 72, con il quale è stata espressamente prevista la possibilità di utilizzare tale ulteriore forma societaria. È stato detto, peraltro, che la predetta novità normativa abbia avuto una valenza “interpretativa” e non “innovativa”, giacché si è ritenuto irragionevole sostenere che la possibilità di optare per la forma giuridica della cooperativa da parte dei sodalizi sportivi, operasse solamente a far data dall'entrata in vigore del citato D. L. del 2004.

Il successivo comma 18 dell'art. 90 della L. 289/2002, così come novellato dall'art. 4, D.L. 22 marzo 2004, n. 72, prevede, poi, che “ Le società e le associazioni sportive dilettantistiche si costituiscono con atto scritto nel quale deve tra l'altro essere indicata la sede legale”. In difformità con il principio generale della libertà delle forme, quindi, è prescritta la forma scritta ad substantiam anche nell'ipotesi in cui l'ente assuma la veste giuridica di associazione non riconosciuta ex art. 36 c.c. La ragione di tale previsione, comunque, è ovvia dal momento che (come si è detto in precedenza) occorre che la denominazione o ragione sociale dell'ente contenga l'indicazione che lo stesso svolge attività sportiva dilettantistica. Riguardo alle ulteriori forme dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata, dovranno essere rispettati i principi sanciti dal codice civile (come si sa, l'atto pubblico è richiesto ad substantiam per le società di capitali e le cooperative e per le associazioni che vogliono ottenere il riconoscimento ai sensi del DPR 361/00).  In conformità con quanto disposto dalla riforma del diritto societario[4], entrata in vigore dal 1 gennaio 2004, infine, si deve ritenere che non occorre che la sede sociale contenga l'indicazione esatta dell'indirizzo e del numero civico dell'ente stesso, ma è sufficiente la sola precisazione del comune in cui essa è ubicata (e ciò, come è noto, anche per evitare che il semplice cambiamento del numero civico comporti l'onerosa modificazione dell'atto costitutivo). L'atto costitutivo dovrà poi riportare la denominazione del sodalizio sportivo e dalla stessa denominazione – come già detto – dovrà evincersi la “finalità sportiva dilettantistica”.

Appare il caso di sottolineare che, sempre l'art. 18 richiede, al punto b), l'espressa necessità di prevedere “l'oggetto sociale con riferimento all'organizzazione di attività sportive dilettantistiche, compresa l'attività didattica”. Anche in questo caso, si può notare l'intenzione del legislatore di coordinare la nuova normativa con la novella societaria che, adesso, all'art. 2463 c.c. in tema di Srl, prevede la specifica indicazione dell'attività che ne costituisce l'oggetto sociale, proprio per evitare che dietro lo schermo apparente di una società sportiva dilettantistica, che attribuisce notevoli vantaggi fiscali, si possano realizzare finalità che nulla hanno a che fare con l'attività sportiva.

Particolare rilevanza assumono le prescrizioni stabilite alle lettere c), d), ed e) del predetto comma 18 dell'art. 90. Alla lettera c), infatti, si prevede che lo statuto debba prevedere l' attribuzione della rappresentanza legale dell'associazione. Ciò che è quasi ovvio nelle associazioni riconosciute e non riconosciute (dove la rappresentanza viene solitamente attribuita al presidente della stessa[5]), richiede, invece, una particolare attenzione nel caso in cui l'ente sportivo assuma la forma delle società di capitali nelle quali, specie a seguito della riforma del diritto societario (in particolare nelle Srl), l'amministrazione e la rappresentanza possono essere attribuite a più soggetti ed, in alcuni casi, disgiuntamente o congiuntamente (artt. 2475 e 2475 bis).

Ridondante, se non pleonastico, potrebbe apparire quanto stabilito dalla lettera d) che richiede “l'assenza di finì di lucro e la previsione che i proventi delle attività non possono, in nessun caso, essere divisi fra gli associati, anche in forme indirette”. Con riguardo alla possibilità che l'assenza di fini di lucro negli enti sportivi costituiti sotto forma di società di capitali possa rappresentare un problema per i sostenitori della tesi secondo cui tali tipologie societarie debbono necessariamente prevedere la suddivisione degli utili tra i soci, si rinvia al celebre scritto del Santini[6] con il quale l'Autore ha sostenuto, con argomentazioni logiche e condivisibili, che la struttura societaria sarebbe neutra rispetto allo scopo perseguito, che potrebbe perciò essere anche non lucrativo. In ogni caso, non volendo considerare ciò come un'applicazione di un principio generale, l'espressa previsione legislativa sarebbe idonea a ritenere tale normativa, comunque, speciale.

La lettera e) del citato comma 18 prevede, poi, che lo statuto indichi “le norme sull'ordinamento interno ispirato a princìpi di democrazia e di uguaglianza dei diritti di tutti gli associati, con la previsione dell'elettività delle cariche sociali, fatte salve le società sportive dilettantistiche che assumono la forma di società di capitali o cooperative per le quali si applicano le disposizioni del codice civile”. Anche in tal caso, il legislatore si è preoccupato di coordinare la normativa speciale con quella generale in tema di società di capitali, nelle quali la nomina degli amministratori viene, solitamente, decisa dai soci in base alla  titolarità delle azioni o quote sociali. È stato, inoltre, eliminato il divieto – stabilito dal vecchio comma 18 lettera a) n. 5 dell'art. 90 L. 289/02 – di erogazione di forme di compenso agli amministratori.

Altro precetto di sicuro interesse è quello sancito dalla lettera f) del comma 18 della citata norma il quale dispone “l'obbligo di redazione di rendiconti economico-finanziari, nonché le modalità di approvazione degli stessi da parte degli organi statutari”. Ogni associazione sportiva, pertanto, ancorché non tenuta ai fini fiscali, dovrà provvedere alla redazione del suddetto documento, a pena della decadenza dalle agevolazioni fiscali.

Altro obbligo espressamente previsto (lettera g introdotta dall'art. 4, D.L. 22 marzo 2004, n. 72, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione) è quello della previsione, nello statuto, delle modalità di scioglimento dell'associazione, nonché l'obbligo (lettera h) della devoluzione ai fini sportivi del patrimonio in caso di scioglimento della società e delle associazioni. Si tratta, secondo l'opinione preferibile, di norma inderogabile, nel senso che l'unica autonomia concessa alle parti potrebbe essere quella di designare, affinché ne raccolga il patrimonio residuo, un ente che persegua fini analoghi.

Degno di menzione, infine, appare il successivo comma 18 bis, il quale dispone che “è fatto divieto agli amministratori delle società e delle associazioni sportive dilettantistiche di ricoprire la medesima carica in altre società o associazioni sportive dilettantistiche nell'ambito della medesima federazione sportiva o disciplina associata se riconosciute dal CONI, ovvero nell'ambito della medesima disciplina facente capo ad un ente di promozione sportiva”. Il divieto sancito dal predetto comma, dunque, è più pregnante (rispetto a quanto stabilito dal precedente n° 4 del comma 18 dell'art. 90) dal momento che la normativa precedente, nella sua prima parte, stabiliva il divieto soltanto nell'ambito della medesima “disciplina sportiva”.

Un'ulteriore fondamentale modifica, introdotta dalla L. 21 maggio 2004 n. 128 di conversione del D.L. 22/03/2004 n. 72 che ha riformulato, come detto, il comma 18 dell'art. 90 della L. 289/02, è costituita dalla mancata previsione della necessità (prevista invece dal precedente n. 7 del comma 18) di inserire negli statuti l'obbligo di conformarsi alle norme ed alle direttive del CONI , nonché agli statuti ed ai regolamenti delle federazioni sportive nazionali o dell'ente di promozione sportiva cui la società o l'associazione intende affiliarsi.

La nuova norma, inoltre, non prevede più, neppure la necessità di stabilire le modalità di riconoscimento ai fini  sportivi delle società e di affiliazioni ad una o più federazioni sportive nazionali del CONI o alle discipline associate o ad uno degli enti di promozione sportiva riconosciuta dallo stesso CONI anche su base regionale.

In conseguenza delle predette modifiche, il CONI, al fine di evitare l'indebita fruizione delle agevolazioni fiscali anche ad associazioni e società sportive non riconosciute da tale organo, ha ottenuto l'emanazione del D.L. 136/2004, recante disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione, il cui art. 7, in particolare, ha previsto che sia il CONI l'unico organismo certificatore, ai fini fiscali, dell'effettiva attività sportiva svolta dalle società e associazioni sportive dilettantistiche e che il medesimo ente dovrà trasmettere, annualmente, al ministero delle entrate l'elenco delle società ed associazioni riconosciute ai fini sportivi. In tal modo, per un verso, le agevolazioni fiscali previste per il settore si applicano solo per le società sportive che sono in possesso del riconoscimento rilasciato dal CONI “quale garante dell'unicità dell'ordinamento sportivo nazionale”; per alto verso, si sono voluti rendere più agevoli i controlli dell'agenzia delle entrate con la segnalazione delle società che, avendo ottenuto il riconoscimento, possono fruire delle agevolazioni fiscali previste per il settore.

Alla luce di quanto sopra esposto, volendo dare una collocazione giuridica agli enti sportivi dilettantistici, cercando di individuare le eventuali differenze tra i vari enti, a seconda della veste giuridica che essi assumono all'atto della costituzione (o a seguito di eventuali loro trasformazioni), non può non riconoscersi che per gli stessi valgono le medesime distinzioni elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza tra associazioni e società[7]. In particolare, ci si riferisce alla distinzione tradizionale tra enti dotati, o meno, di personalità giuridica. I primi ( tra i quali vanno annoverate le associazioni riconosciute ai sensi del DPR 361/2000, tutte le società di capitali e le cooperative) godranno del requisito dell'autonomia patrimoniale perfetta, nel senso che delle obbligazioni assunte dall'ente ne risponderà soltanto l'ente stesso con il suo patrimonio, non potendo, i creditori della società o dell'associazione, agire sul patrimonio degli amministratori o dei singoli associati. Invece, i secondi (associazioni non riconosciute), avranno pur sempre una loro autonomia patrimoniale (il patrimonio dell'ente, cioè, sarà pur sempre distinto da quello dei singoli associati), sebbene imperfetta, nel senso che, secondo quanto dispone l'art. 38 c.c., per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l'associazione, i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune e (secondo l'opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza), in via accessoria ma non sussidiaria, anche sul patrimonio delle persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione. La circostanza che la  responsabilità solidale delle persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione abbia carattere accessorio, ma non sussidiario, rispetto alla responsabilità primaria dell'ente, si badi bene, significa che l'obbligazione di colui che ha agito è configurata come una forma di garanzia ex lege, assimilabile alla fideiussione, ma che non consente al responsabile di godere del beneficio della preventiva escussione del fondo comune.

Per quanto concerne l'assoggettabilità al fallimento anche per le società o associazioni sportive dilettantistiche, considerata l'assenza tipica dello scopo di lucro, occorre risalire alle considerazioni già espresse sulle società professionistiche proprio anteriormente all'ammissibilità della previsione dello scopo di lucro; in particolare, la valutazione positiva derivava dalla fondamentale circostanza dell'attività imprenditoriale svolta dalle società professionistiche. Pertanto, aderendo a questa teoria, anche le società sportive dilettantistiche, quando operano su modelli imprenditoriali e si rivelano insolventi, dovrebbero essere dichiarate fallite[8].

 

IV - Problemi di coordinamento tra le due discipline: il c.d. professionista di fatto e la sua prestazione

La dicotomia professionismo-dilettantismo pone notevoli incertezze, con tutte le problematiche che ne derivano per l’applicazione della normativa di competenza. Quella, probabilmente, di maggiore interesse e che ha attirato l’attenzione degli specialisti, riguarda la natura del rapporto tra atleta dilettante e società-associazione sportiva di appartenenza.

Non v’è dubbio che la difficoltà deriva dallo stesso concetto di dilettantismo, che ricomprende in sé prestazioni sportive assolutamente eterogenee tra loro ed è molto controverso, tanto nella prassi, quanto nelle varie fonti normative che, come in precedenza evidenziato, lo prendono in considerazione direttamente o indirettamente.

Occorre premettere che il concetto di dilettante necessità una preliminare distinzione fondamentale; infatti, detto termine, nel linguaggio corrente, può intendersi tanto in senso tradizionale, ovvero l’amateur, colui cioè che si dedica allo sport per mera passione, come pratica salutistica del tempo libero, per definizione assolutamente antinomica al concetto di lavoro, quanto nel senso di atleta che svolge attività sportiva dilettantistica che, ad onta della qualifica formale, percepisce invece compensi, spesso lauti ed a titolo di esclusivo sostentamento.

Fatta questa necessaria premessa, va rilevato che l’atleta è parte di due collegati, ma distinti rapporti; da un lato, quello, di natura associativa, di tesseramento con la rispettiva federazione; dall’altro, quello negoziale che dà vita al vincolo con la società di appartenenza[9].

Orbene, se nel caso del dilettante puro anche il rapporto di vincolo integra un ulteriore rapporto associativo, essendo unico il centro di interesse e risolvendosi la partecipazione alla gara nell’adempimento del patto che vede accomunati atleti e società intorno al fine comune della pratica sportiva, altrettanto non può dirsi per il dilettante retribuito.

Proprio in tale ultimo caso, ove la misura e la rilevanza della “retribuzione” dovesse indurre a considerare le prestazioni dell’atleta in termini di scambio con la società che diviene controparte, e non più come apporto nel comune negozio associativo, evidentemente, sarà necessario qualificare, in termini giuridici, la percezione delle somme di danaro e la compatibilità con la normativa in materia di sport dilettantistico.

In altre parole, si tratta del fenomeno del “dilettante che lavora”, individuato con i diversi nomi di “professionismo di fatto”, di “dilettantismo retributivo”, ovvero di “professionismo irregolare”, che peraltro non riguarda  solo il nostro Paese[10].

In Italia, il problema, paradossalmente, è nato proprio dalla legge n. 91/1981, che sebbene emanata allo scopo specifico di far emergere e disciplinare gli aspetti lavoristici delle prestazioni sportive, non ha affatto disciplinato il lavoro nello sport nella sua interezza, ma solo quello che si svolge nell’ambito delle federazioni sportive qualificate come professionistiche; tali sono, secondo la originaria delibera del Consiglio Nazionale del CONI del 2 maggio 1988, soltanto la Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.), la Federazione Ciclistica Italiana (F.C.I.), la Federazione Italiana Golf (F.I.G.), la Federazione Motociclistica Italiana (F.M.I.) e la Federazione Pugilistica Italiana (F.P.I.), nonchè, a decorrere dal 30 giugno 1994, la Federazione Italiana Pallacanestro (F.I.P.).

Appare evidente che la legge apparve ben presto iniqua e discriminante nella misura in cui, presupponendo la formale qualificazione professionistica della federazione di appartenenza, sottraeva alla sua sfera di applicazione tutti i casi di professionismo “di fatto”, assoggettando così a diversa disciplina rapporti di lavoro che avrebbero, viceversa, meritato un identico trattamento per essere contraddistinti da analogo contenuto[11].

La questione della disparità di trattamento si è riproposta, con insistenza, sul finire degli anni novanta quando, a cagione del vertiginoso salto di qualità di tutta una serie di attività sportive qualificate come dilettantistiche, anche all’interno delle stesse federazioni professionistiche, lo spazio occupato dal professionismo di fatto è aumentato a dismisura, sino a divenire ben più ampio di quello ufficializzato dalla legge n. 91/1981[12]; ciò anche in riferimento alle prestazioni di ulteriori figure funzionali allo svolgimento delle predette attività quali i tecnici, i direttori sportivi e gli assimilati.

Si è così tornati a sottolineare come atleti appartenenti a diverse federazioni prive di settore professionistico (es. i pallavolisti rispetto ai cestisti), ovvero a diversi settori della medesima federazione (es. i calciatori dei Campionati Nazionali Dilettanti rispetto a quelli di C/2), fruiscano di trattamenti diversi, pur ricevendo somme di denaro spesso più consistenti dei loro colleghi ufficializzati e pur offrendo, nell’ambito di discipline sportive, svolte egualmente sotto l’egida del CONI, prestazioni assolutamente identiche[13].

A tal proposito, è significativo leggere quanto incidentalmente affermato dal TAR Lazio (Sezione Terza – ter, 12 maggio 2003, n. 4103) in un ricorso intentato da una atleta, tale Catarina Pollini contro la G.S. Comense e la F.I.P. ed in particolare: “certamente la mancata applicazione al settore del basket femminile della legge 23 marzo 1981 n. 91 è la vera causa della vicenda quando, come nel caso in esame, appare difficile configurare come dilettantistica un’attività sportiva comunque connotata dai due requisiti richiesti dall’art. 2 (remunerazione comunque denominata e continuità delle prestazioni) per l’attività professionistica”.

La realtà è che l’impostazione legislativa è stata vista, sin dall’inizio, come riproduttiva, nell’ordinamento dello stato, dell’antitesi dilettantismo-professionismo, solo in origine fondata sul carattere gratuito della prestazione dilettantistica, allorquando, nella seconda metà dell’Ottocento, in Inghilterra, ebbero origine le moderne discipline sportive e gli atleti assunsero la posizione di dilettanti; ciò accadeva, sia perché le attività praticate erano per loro natura  inutilitaristiche e sia perché, appartenendo a classi socialmente agiate, non avevano affatto bisogno di lavorare e di ricavare un reddito sostitutivo dallo sport.

L’equivoca disciplina formale ha finito ben presto, però, con l’entrare in rotta di collisione con la diversa e sempre più incombente realtà, caratterizzata dalla presenza  di varie forme di monetizzazione e, pertanto, dal superamento dell’illusoria proposizione che ipotizzava la presenza di lavoro solo ed esclusivamente in ambito professionistico.

Non è un caso, del resto, che soprattutto nell’ultimo decennio, abbia trovato larga diffusione la prassi, in ambito dilettantistico, della stipula di contratti, variamente denominati (di ingaggio, di prestazione sportiva, di prestazione sportiva dilettantistica, di collaborazione sportiva), ovvero elusivamente titolati come accordo o scrittura privata, che, in concreto, risultano articolati, quanto ai contenuti, come quelli “tipo”, frutto di contrattazione collettiva dei professionisti ufficializzati.

Quanto osservato circa la possibile e, comunque, assai frequente monetizzazione delle prestazioni non ricomprese nella disciplina della legge n. 91/1981, induce pertanto ad una prima, sicura conclusione circa l’inidoneità dello status formale di dilettante ad offrire alcun parametro all’interprete per risolvere questioni operative al di là dell’ambito meramente endoassociativo.

E’ significativo, al riguardo, che il termine dilettante, oggi, non esiste più nella Carta Olimpica ed attualmente la Regola 45 si limita a rimandare, per l’ammissione degli atleti ai giochi, alle prescrizioni delle corrispondenti federazioni internazionali, mentre la norma di attuazione della medesima si limita sterilmente ad affermare che l’iscrizione e la partecipazione dei concorrenti non devono essere condizionate da considerazioni finanziarie.

Non può, inoltre, ritenersi priva di significato, a livello nazionale, la circostanza che lo Statuto del CONI, all’art. 6 lett. d), faccia uso dell’endiadi “attività sportiva dilettantistica o comunque non professionistica”, fornendo così un riscontro normativo alla eterogeneità e alla connotazione in negativo dell’attuale concetto di dilettantismo.

Ritornando al problema di cui si dibatte, un consolidato indirizzo giurisprudenziale, risalente agli anni settanta, considera l’attività sportiva soggetta, comunque, alla disciplina comunitaria, sulla scorta dell’unico presupposto che la stessa sia configurabile come economica ai sensi dell’art. 2 del Trattato.

Tale filone interpretativo, costantemente confermato nelle successive pronunce, dopo essere stato ribadito, seppur incidentalmente, nell’arcinota sentenza Bosman del 1995 (punti 73 e 74), in cui la Corte di Giustizia, definendo così la sua futura e complessiva competenza in tema di lavoro sportivo, ha avuto modo di precisare come l’unico parametro in tal senso non possa che essere quello dello svolgimento di prestazioni retributive ed ha avuto il suo definitivo epilogo nelle sentenze Deliege e Kolpak.

Nella prima, la Corte, nel sottolineare apertamente l’inutilità della qualifica attribuitasi unilateralmente da una federazione a scapito dell’approfondimento della natura dell’attività svolta in concreto dall’atleta, ha espressamente affermato come anche gli amateurs possano invocare l’applicazione del Trattato ove prestino servizi che permettono di organizzare spettacoli, anche se non pagati dalle società che ne beneficiano[14].

Nella seconda, la stessa Corte, dopo aver constatato, al punto 16, che Kolpak, giocatore di pallamano, era vincolato con la società di appartenenza da un contratto di lavoro, essendo obbligato, “contro il corrispettivo di una retribuzione mensile fissa, a fornire in forma subordinata prestazioni nell’ambito dell’attività di allenamento e degli incontri organizzati dalla sua società e che si tratta, in proposito, della sua principale attività professionale”, ha espressamente considerato lo stesso, al successivo punto 21, uno “sportivo professionista” (Sentenza 8 Maggio 2003, DeutscherHandallbund e V c/ Maros Kolpak).

Anche l’appartenenza al settore dilettantistico delle società che fruiscono delle prestazioni degli atleti, al contempo appare, del resto, inidonea a precludere più penetranti valutazioni sostanziali, sia in ambito comunitario che interno.

Devono, infatti, considerarsi senz’altro imprese in senso tecnico, ai sensi dell’attuale art. 48 del Trattato, le società sportive che, indipendentemente dalla forma giuridica assunta nei Paesi di appartenenza, organizzano spettacoli sportivi a pagamento, negoziano diritti televisivi e fanno operazioni di sponsorizzazione e di merchandising.

Inoltre, sono numerosi i casi, in ambito nazionale, in cui società sportive costituite in forma di associazioni non riconosciute sono state assoggettate a fallimento nonostante militassero in campionati non professionistici; ciò sulla scorta della già accennata considerazione che, a quei fini, rileva esclusivamente l’oggettiva imprenditorialità, la circostanza cioè che le stesse esercitino, abitualmente e sistematicamente, attività di organizzazione, allestimento e attuazione di spettacoli sportivi.

Analogamente deve argomentarsi anche a proposito delle società sportive di capitali senza scopo di lucro di recente previsione, posto che nel sistema vigente non vengono in considerazione le finalità soggettive di guadagno quanto, come appena rilevato, l’oggettiva  ed astratta attitudine a conseguire comunque un profitto[15].

Ritornando al professionista di fatto, pur regnando enorme incertezza sul trattamento da riservarsi in concreto, anche da noi la giurisprudenza sembra, comunque, concorde sulla necessità di riguardare l’aspetto fattuale del rapporto, negando ogni ruolo alla eteronoma qualificazione di dilettante.

Tale orientamento appare scolpito nell’ordinanza 18 ottobre 2001 del Tribunale di Pescara, in cui si afferma testualmente che “la distinzione tra professionismo e dilettantismo nella prestazione sportiva si mostra priva di ogni rilievo, non comprendendosi per quale via potrebbe mai legittimarsi una discriminazione del dilettante”.

In generale, comunque, tutte le soluzioni appaiono incentrate sulla considerazione che, sul piano del trattamento, occorre prescindere dalla qualificazione formale privilegiando la sostanza dei rapporti, avendo come parametro esclusivo l’economicità della prestazione.

Una volta esclusa la presunzione di subordinazione di cui all’art. 3 della legge n. 91/1981, inoltre, ove l’attività sportiva sia remunerata a fronte di impegni e obblighi sostanzialmente identici a quelli del professionista, dovrebbe darsi per scontata la possibilità di ravvisare un rapporto di lavoro, necessariamente autonomo o subordinato[16].

Da parte di alcuni[17], poi, si è ventilata la possibilità di applicare la legge n. 91/1981 o direttamente[18] o in via analogica[19], anche ai dilettanti che lavorano, pur in difetto della qualificazione formale.

Detta tesi ha trovato un certo seguito sia in isolate sentenze di merito degli anni Ottanta, sia in alcuni lodi arbitrali[20] e perfino in una recente sentenza di Cassazione (Cass. Civ. Sez. Lav. 1/8/2003 n. 11751)[21] che ha fatto riferimento alla citata legge per un rapporto intercorso nell’ambito della F.I.S.G. e, pertanto, al di fuori dell’ambito del professionismo ufficializzato..

Tuttavia, la chiara definizione dei professionisti dettata dall’art. 2, che considera tali quelli che “conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali” ed il divieto di applicazione analogica per le leggi speciali imposto dall’art. 14 delle preleggi dovrebbe, senz’altro, indurre a concludere, come ritenuto dai più, che occorra far capo, per gli specifici problemi di trattamento del professionista di fatto, alle norme di diritto comune dettate in linea generale per ogni rapporto di lavoro (v.da ultimo, Corte d’Appello di Roma, 8 giugno 2005, Bonfrisco Angelo c/ F.I.G.C. e A.I.A., inedita, che ha dichiarato non estensibili analogicamente agli arbitri, non ricompresi nell’art. 2, le norme speciali della legge n. 91/1981).

Se così è, però, la legge n. 91/1981 pone seri problemi di conformità al dettato costituzionale[22], se si considera che l’alternatività tra la tutela speciale offerta da questa legge (applicabile ai professionisti) e quella generale codicistica (applicabile invece ai professionisti di fatto), le cui differenze sono tutt’altro che trascurabili (si pensi alle deroghe stabilite dai commi 8 e 9 dell’art. 4, al trattamento pensionistico ed assistenziale, nonché all’arbitrabilità oggettiva delle controversie ex art. 412 ter c.p.c.),  risulta rimessa al Consiglio Nazionale del CONI ( art. 2 legge n. 91/1981 e 5 lett. a) D. lgs. N. 242/1999) e, attualmente, in virtù dei Principi Fondamentali degli Statuti delle Federazioni Sportive Nazionali, delle Discipline Sportive Associate e delle Associazioni Benemerite alle stesse federazioni, “mediante specifica previsione statutaria, in presenza di una notevole rilevanza economica del fenomeno e a condizione che l’attività in questione sia ammessa dalla rispettiva Federazione internazionale” (Principio  n. 23).

Una tale disciplina, che consegna al gradimento delle singole federazioni – persone giuridiche private la scelta se dotarsi o meno di un settore professionistico  rappresenta senz’altro un regresso rispetto a quella precedente, che almeno demandava alla potestà regolamentare del CONI, e quindi ad una fonte di diritto secondaria, l’emanazione (di fatto mai avvenuta[23]) di direttive specifiche e non sembra affatto in linea con lo stesso principio di uguaglianza sancito dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, oltre che con la significativa tutela offerta dalla stessa Carta Costituzionale ai rapporti di lavoro.

In conclusione occorre rilevare, comunque, che il problema del professionismo di fatto non riguarda in egual misura le varie federazioni sportive nazionali, essendo differente la popolarità e la spettacolarità e, quindi, l’idoneità delle varie discipline a distribuire risorse economiche ai protagonisti delle corrispondenti prestazioni sportive, anche se tutte sono in ogni caso interessate a non estendere l’area del professionismo ufficializzato ed a contenere, comunque, in ambito endoassociativo ogni possibile, relativo contenzioso.

Da quanto esposto, appare opportuno riflettere sulla necessità di un intervento legislativo che modifichi le attuali disposizioni normative, ormai divenute obsolete.

La distinzione tra professionismo e dilettantismo, probabilmente, più che alle società dovrebbe essere riferita all’attività svolta dal singolo atleta, in base all’accertamento delle modalità di svolgimento della stesa ed all’entità del corrispettivo ricevuto.

De iure condendo, si potrebbe, ad esempio, azzardare una figura di atleta professionista mutuandone parzialmente la definizione da quella utilizzata per l’imprenditore e, pertanto, considerare tale colui il quale presta professionalmente la propria attività sportiva (prestazione atletica) per fini economici; ciò a prescindere dalla scelta della singola Federazione di qualificarla come professionistica ed a prescindere, come detto, dalla circostanza (a questo punto irrilevante) se la società di appartenenza sia essa professionistica o meno.

Al contempo, adottando la distinzione sopra proposta e trasferendo l’attributo “professionistico” all’atleta piuttosto che alla società, non si vede più quali possano essere gli ostacoli che si frappongono all’ammissione dello scopo di lucro anche per le società diverse da quelle oggi ritenute “professionistiche”.

[24]  A Nicola Andreozzi va attribuita la stesura dei paragrafi I e II del presente lavoro , ad Augusto Saija quella del paragrafo III, mentre il paragrafo IV, riferendosi ad un problema di coordinamento delle analisi svolte, ad entrambi.



[1]   A Nicola Andreozzi va attribuita la stesura dei paragrafi I e II del presente lavoro , ad Augusto Saija quella del paragrafo III, mentre il paragrafo IV, riferendosi ad un problema di coordinamento delle analisi svolte, ad entrambi.

* Dottorando di ricerca in Diritto dell’Economia dei Trasporti e dell’Ambiente presso l’Università degli Studi di Palermo.

* Dottorando di ricerca in Diritto dell’Economia dei Trasporti e dell’Ambiente presso l’Università degli Studi di Palermo.

[2]   Per una distinzione tra associazione e società, vedi amplius GALGANO,  Il negozio giuridico, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale, già diretto da A. cicu e F. Messineo e continuato da L Mengoni, p. 184; COSTI, Fondazione e impresa, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1968, p 15 ss.

[3]   Legge 23 marzo 1981 n. 91, art. 10.

[4]   D. Lgs 6/2003.

[5]   Art. 36, comma 2, c.c.

[6]   SANTINI, Il tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, in Riv. Dir. Civ., 1963, I, p. 51 ss.

[7]   DI SABATO, Manuale delle società, 1992, Torino, p. 32 ss.

[8]   Vedi infra, pag. 19.

[9]   DE SILVESTRI A., Il contenzioso tra pariordinati nella Federazione Italiana Gioco Calcio, in Rivista di diritto sportivo, 2000, p. 520 ss.

[10]  LOMBARDI P., Il vincolo degli atleti nel diritto dello sport internazionale, in   AA.VV Vincolo sportivo e diritti fondamentali, Pordenone, 2002, p. 97 ss.

[11]  VIDIRI G., La disciplina del lavoro sportivo autonomo e subordinato in Giustizia civile, 1993, p. 210;  

[12]  BELLAVISTA A., Il lavoro sportivo professionistico e l’attività dilettantistica, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1997, p. 524 ss.;

[13]  TOGNON J., Il rapporto di lavoro sportivo: professionisti e falsi dilettanti,  in Rivista giuslavoristi.it., 2005, pp. 9-10;  CROCETTI BERNARDI, Rapporto di lavoro nel diritto sportivo, in Digesto della Discipline Privatistiche Sezione commerciale, Aggiornamento 2, UTET, Torino 2003, pp. 757 ss.; DE SILVESTRI A., La riforma del calcio dilettantistico in tema di vincoli e di accordi economici, in AA.VV  Vincolo sportivo e diritti fondamentali, Pordenone, 2002, p. 37 ss.

[14]  amplius MUSUMARRA L., La qualificazione degli sportivi professionisti e dilettanti nella giurisprudenza comunitaria, in Rivista di diritto ed economia dello sport, 2, 2005, p. 39 ss.

[15]  FORMICA P., Impresa sportiva : il fallimento delle associazioni  non riconosciute, in  Rivista di diritto sportivo, 1995, p. 798 ss.

[16]  VALORI G., Il diritto nello sport – Principi, soggetti, organizzazione, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 200-201; SPADAFORA M.T., Diritto del lavoro sportivo, Giappichelli, Torino, 2004, p. 62;

[17]  MERCURI L., Sport professionistico (rapporto di lavoro e previdenza sociale), in Novissimo Digesto italiano, Appendice, Utet, Torino, 1987, p. 519;

[18]  REALMONTE E., L’atleta professionista e l’atleta dilettante, in Rivista di diritto sportivo, 1997;

[19]  ICHINO P., Il lavoro subordinato: definizione e inquadramento (artt. 2094-2095), in Il codice civile commentario diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, pag. 100.

[20]  CROCETTI BERNARDI E., Le discriminazioni nei confronti degli atleti stranieri, in AA. VV,  Vincolo sportivo e diritti fondamentali, Pordenone, 2002, pp. 89-90;

[21]  In Mass. Giur. It., 2003,

[22]  PESSI R., Decisioni dei giudici sportivi e diritto del lavoro, in Gli effetti delle decisioni dei giudici sportivi, a cura di C. Franchini, Giappichelli, Torino, 2004, p. 36.

[23]  amplius CROCETTI BERNARDI E., Le discriminazioni nei confronti degli atleti stranieri, in AA. VV,  Vincolo sportivo e diritti fondamentali, Pordenone, 2002, pp. 136-137.

 

Data di pubblicazione: 4 agosto 2006.

 


 [AS1]Per una distinzione tra associazione e società, vedi amplius GALGANO,  Il negozio giuridico, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale, già diretto da A. cicu e F. Messineo e continuato da L Mengoni, p. 184---- AS, 30/05/2006, 18.13 ----