La normativa
nazionale ed internazionale per la protezione
del patrimonio
culturale subacqueo nel Mediterraneo.
Considerazioni
introduttive ad un recente convegno*
Sommario: 1. Premessa. Complementarietà
dell’approccio della tematica in chiave “marittimistica” a fronte di analoga indagine
(svolta da altro relatore) nell’ottica del diritto del mare. Particolare
rilevanza delle competenze delle autonomie locali nella materia della
protezione dei beni archeologici. Limiti dell’intervento del legislatore comunitario
- 2. Critica alla rigida dicotomia normativa pubblico-privato ai fini di una
più efficace protezione del patrimonio culturale sommerso. Importanza del c.d.
diritto premiale – 3. Richiamo alla Convenzione Salvage 1989 - 4. Ancora sulla
Convenzione Salvage 1989 in relazione all’art. 4 della Convenzione UNESCO 2001
sulla protezione del patrimonio archeologico sommerso. Limiti e funzioni delle
convenzioni regionali previste dall’art. 6 della Convenzione UCH - 5. L’omessa
disciplina circa il regime dominicale del bene culturale sommerso nella
Convenzione UNESCO 2001, a fronte del regime di diritto privato uniforme
contenuto nella Salvage 1989 che esclude l’acquisizione in proprietà del bene
salvato da parte del salvor. Significato della preferenza per la conservazione
in situ e del divieto di sfruttamento commerciale del patrimonio culturale
sommerso - 6. Le significative differenze tra law of salvage e law
of find. Richiamo all’Abandoned Shipwreck Act del 1987 - 7. Considerazioni di sintesi.
1. Premessa. Complementarietà dell’approccio della
tematica in chiave “marittimistica” a fronte di analoga indagine (svolta da
altro relatore) nell’ottica del diritto del mare. Particolare rilevanza delle
competenze delle autonomie locali nella materia della protezione dei beni
archeologici. Limiti dell’intervento del legislatore comunitario.
Nel medesimo contesto cui è destinato
questo scritto, viene prevista un’altra relazione introduttiva affidata alla
competenza internazionalistica d’un autorevole studioso, cui si devono preziosi
contributi nello specifico settore della protezione del patrimonio culturale
subacqueo[1].
Ritengo (e non soltanto per ragioni di complementarietà) che
l’approccio che mi riguarda debba tener conto, in mera funzione di una dialettica
costruttiva, di prospettive “marittimistiche” (maritime law), nel significato
tradizionale – anche se sempre più opinabile - del termine. V’è stata, in
passato, una tendenza ad enfatizzare e separare il lato giusprivatistico,
creando quasi una contrapposizione teleologica rispetto alle prospettive
giuspubblicistiche e più propriamente di diritto internazionale pubblico (law
of the sea).
Tale netta separazione che concettualmente non condivido, mi è invece
utile (giova forse ripeterlo) semplicemente quale metodo per cercare di pervenire,
nella materia, a risultati di sintesi, nel senso hegeliano del termine, cioè di
superamento di tesi ed antitesi con una conclusione da considerare “migliore”,
obiettivamente, delle enunciazioni contenute nelle opposte linee di partenza e
non un mero compromesso.
Va da sé che la prospettiva marittimistica riguarda tanto il diritto
privato uniforme quanto i singoli diritti nazionali. Questi ultimi si possono
ritenere tali in un senso sempre più lato e, aggiungerei, in un’ottica
concettuale che tiene conto della classica angolazione internazionalistica. Mi
riferisco ad una concezione monistica ed omnicomprensiva dello “Stato”, con una
consequenziale indifferenza circa divisioni di poteri, competenze, autonomie,
anche se garantite al massimo livello costituzionale.
In realtà e per limitarmi a due esempi
dalle caratteristiche apparentemente molto lontane, indico le competenze degli
Stati federati in U.S.A. nella materia dei ritrovamenti dei tesori sommersi e
quella della Regione siciliana per ciò che riguarda il patrimonio archeologico,
compreso quello nei propri spazi marini, da considerarsi in termini di
territorialità in senso stretto o, se necessario, in soli termini di logica
funzionalizzazione.
Di tale realtà, effettuale e
giuridico-formale ad un tempo, fondata sull’accelerato sviluppo delle
autonomie, occorre che si abbia adeguata considerazione anche in sede di
formulazione dei corpi normativi pattizi, se si vuole limitare il rischio che
le relative disposizioni incontrino difficoltà ed ostacoli, sia in sede
ermeneutica e d’implementazione, sia in sede di pratica attuazione.
I rischi cui ho fatto cenno sono particolarmente forti nella materia,
poiché tanto la Convenzione UNESCO del 2 novembre 2001 (UCH) sulla protezione del
patrimonio culturale sommerso (in via di ratifica), quanto gli schemi di
progetti di convenzione regionale (nei limiti di ciò che è a mia conoscenza)
non prevedono poteri di particolare rilievo per strutture organizzatorie a
carattere internazionale, lasciando ampio spazio ad atti ed attività “statali”,
sia pure con varie previsioni di coordinamenti, consultazioni e cooperazioni
interstatuali.
Sottolineo - per inciso e per quanto
riguarda l’area comunitaria - che anche l’Unione europea non ha significativi
poteri d’intervento, se non in modo indiretto ed incentivante o entro i limiti
in cui possano ipotizzarsi aspetti di commercializzazione legati alla
circolazione dei beni in argomento.
Durante il convegno del marzo 2001,
organizzato in Sicilia con un carattere obiettivamente prodromico alla
Convenzione ora citata, è stata sostenuta, proprio nel corso della relazione
dedicata al diritto comunitario, l’impossibilità da parte dello stesso
legislatore comunitario di creare una direttiva di armonizzazione circa il modo
di proteggere i beni culturali nei singoli Stati[2].
In proposito, pur dando atto, nel mio rapporto di sintesi, che l’affermazione è
in perfetta rispondenza con l’art. 151 ex 128 Del Trattato della Comunità, come
modificato a seguito degli accordi di Maastricht, richiamavo nello stesso tempo
la direttiva comunitaria 93/7/CE sulla restituzione dei beni culturali, che -
classificati come beni del patrimonio nazionale - siano usciti illecitamente
dal territorio di uno Stato membro. Quest’ultima direttiva è stata considerata
una sorta di contrappeso al regolamento comunitario n. 3911 del 1992 che,
peraltro, enfatizza il rafforzamento delle garanzie per l’esportazione dei beni
culturali verso i Paesi terzi[3].
Ritornando sulla linea principale di
questa esposizione ed in particolare sull’opportunità di dare spazio, nelle
previsioni normative convenzionali, anche ad entità esponenziali diverse dagli
“Stati” (e dalle organizzazioni internazionali), noto - come segno della già
accennata linea evolutiva - che l’art. 26 della Convenzione UNESCO del 2001
prevede che “This Convention shall be subject to accession… (b) by
territories which enjoy full internal self-government, recognized as such by
the United Nations, but have not attained full independence in accordance with
General Assembly resolution 1514 (XV) and which have competence over the
matters governed by this Convention, including the competence to enter into
treaties in respect of those matters”.
Configuro - secondo la mia opinione ed
il conseguente auspicio - le convenzioni internazionali di nuova generazione
(ed in particolare quelle regionali) come corpi normativi in cui sempre più
numerosi siano gli impegni che gli Stati esplicitamente assumono, nei confronti
delle altre Parti (e senza espressioni generiche), relativamente al
coinvolgimento delle “autonomie locali”, ben al di là della già riconosciuta
realtà dei territori.
Quanto ai poteri che le Regioni
italiane (o enti e comunità simili in altri Paesi) possono direttamente
esercitare in campo internazionale - compreso il treaty making power -,
non mi sembra fuor di luogo, in questo quadro introduttivo, porre la questione
dei limiti di applicabilità dei principi di diritto transfrontaliero che, per
l’Europa, trovano la normativa di base nella Convenzione di Madrid del 21
maggio 1980. In uno scritto, ormai non recente[4],
ho cercato di dimostrare che il carattere transfrontaliero debba essere
riconosciuto anche quando la linea comune di “confine”, reale o potenziale,
riguardi le zone economiche esclusive. Il muovere dal convincimento relativo ad
elementi di “territorializzazione” rinvenibili nella costruzione concettuale di
z.e.e. aveva facilitato la mia argomentazione conclusiva.
In ambito più generale, la problematica
dei poteri delle regioni in campo internazionale ha trovato in Italia recenti
sbocchi normativi, sia a livello costituzionale che di leggi ordinarie di
attuazione. Mi riferisco alle modifiche dell’art.117 della Costituzione
intervenute con legge cost.18 ottobre 2001 n.3 ed alla legge 5 giugno 2003
n.131, che ho l’opportunità d’inserire in sede di revisione di questo scritto.
La norma costituzionale attribuisce, alle regioni, competenza legislativa
concorrente (con riserva dei principi fondamentali riservati alla legislazione
dello Stato) per ciò che concerne rapporti internazionali e con l’Unione
europea.
Nel dettaglio delle relative materie,
viene inclusa “la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali”. È
prevedibile che sulla distinzione tra “valorizzazione” e “tutela dei beni
culturali” si aprirà un difficile dibattito anche in termini di dottrina, dal
momento che per la normativa di tutela viene prevista la competenza esclusiva
dello Stato. Ad esempio, la fissazione (nel rispetto delle norme
internazionali) di criteri per stabilire se si debba, prioritariamente,
decidere per la conservazione in situ di un complesso di beni archeologici
sommersi o se si debba procedere ad una conservazione museale sono di
competenza esclusiva dello Stato? Non può essere trascurato, peraltro, il peso
in termini di chiave ermeneutica, che nella nuova formulazione dell’art.117
della costituzione italiana assume il principio della residualità delle
competenze in favore delle regioni[5].
La complessità della questione viene
aggravata in relazione alla tematica della piena compatibilità, anche nella
materia specifica che qui ci occupa, tra i preesistenti poteri e competenze
delle regioni dotate di uno statuto speciale costituzionalmente garantito e la
normativa di attuazione della citata legge costituzionale.
Paradossalmente, le incertezze di
ordine costituzionale si acuiscono e diventano più rilevanti contestualmente
all’entrata in vigore della legge 131 del 2003 (art. 6), che precisa nel
dettaglio il contenuto dell’attività internazionale delle regioni. Solo nelle
materie di competenza legislativa delle Regioni (come il legislatore statale
non manca di precisare espressamente), le Regioni stesse possono: a) provvedere
direttamente all’attuazione ed all’esecuzione di accordi internazionali
ratificati; b) concludere con enti territoriali interni ad altro Stato, intese
dirette a favorire il loro sviluppo economico, sociale e culturale,
nonché a realizzare attività di mero rilievo internazionale; c) concludere con
altri Stati accordi esecutivi ed applicativi di accordi internazionali
regolarmente entrati in vigore, o accordi di natura tecnico-amministrativa, o
accordi di natura programmatica finalizzati a favorire il loro sviluppo
economico, sociale e culturale, nel rispetto della Costituzione, dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, dagli obblighi internazionali e
dalle linee e dagli indirizzi di politica estera italiana, nonché nelle materie
di cui all’art.117, terzo comma della Costituzione, dei principi fondamentali
dettati dalle leggi dello Stato.
Nei limiti in cui venga risolta
positivamente la questione delle effettive e specifiche competenze delle
Regioni (ed in particolare di quelle a statuto speciale), è agevole notare come
l’art. 6 della legge n.131 del 2003 potrà costituire, nel nostro Paese, un
fondamentale strumento di attuazione concreta della Convenzione UNESCO del 2001
sulla protezione del patrimonio culturale sommerso, ivi compresi i “bilateral,
regional or other multilateral agreements” previsti dalla Convenzione stessa[6].
2. Critica alla rigida dicotomia normativa
pubblico-privato ai fini di una più efficace protezione del patrimonio
culturale sommerso. Importanza del c.d. diritto premiale.
Esaurita, sia pure nell’economia di
questo scritto, la prospettazione della questione delle competenze
Stato-autonomie locali, va proposto - con la medesima attenzione al trend della
recente produzione normativa di diritto interno ed internazionale -
l’interrogativo circa l’affievolimento (quanto meno) della rigida distinzione
(ed a volte contrapposizione) tra diritto pubblico-diritto privato, ai fini
dell’incasellamento delle varie norme o dei vari corpi normativi di ogni
ordinamento.
Ab esterno cioè (in termini
concettuali), la constatazione di partenza non riguarda le nuove tendenze caratterizzanti
gli impianti normativi, ma una delle più storiche distinzioni elaborate dalla
dottrina amministrativistica italiana: diritto soggettivo dei privati
(interesse direttamente tutelato dalla norma giuridica) ed interesse legittimo
(forma indiretta di tutela dell’interesse privato, se ed in quanto coincidente
con la finalità primaria della norma che in quest’ultimo caso è il
perseguimento di finalità ed interessi di natura collettiva).
Ai fini delle considerazioni che qui rilevano, gli aspetti positivi
della figura dell’interesse legittimo, come delineatasi in Italia nel corso di
tanti decenni, non sono certo quelli di individuazione del criterio di
suddivisione della giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice civile
(ché, sotto questo aspetto, le numerose incertezze hanno finito con l’influire
spesso sulla effettiva funzione della giustizia sostanziale, tanto da indurre
il legislatore statale a criteri attributivi sempre più fondati sulla
competenza per materia[7]).
Intendo, invece e semplicemente, sottolineare come, attraverso l’enfatizzazione
dell’interesse del privato indirettamente tutelabile (e quindi legittimante il
privato stesso a chiedere l’annullamento di un atto amministrativo che in concreto
venga a ledere tale interesse), si ottiene l’eliminazione dal mondo del diritto
degli effetti di un provvedimento che, in quanto lesivo di prioritari interessi
pubblici, avrebbe nociuto all’intera collettività.
Con questo richiamo processuale, a
valenza prevalentemente esemplificativa, intendo rilevare che spesso la rigida
dicotomia normativa “pubblico-privato” rende un cattivo servizio alla concreta
tutela dell’interesse pubblico. Per gli intuibili e forti limiti dell’istituto
dell’autotutela, quanti atti amministrativi illegittimi avrebbero continuato a
produrre i loro effetti negativi, se non ci fosse stata la casuale (e
fortunata) coincidenza della lesione indiretta di un interesse privato?
È mia opinione che la tutela del
patrimonio culturale (di quello sommerso, in particolare) possa avvenire più
efficacemente se si percorra, sul piano dell’elaborazione normativa, la stessa
via recentemente seguita per la tutela dell’ambiente (e dell’ambiente marino,
in particolare). Per inciso, osservo che una concezione non puramente
chimico-fisica dell’ambiente induce ad includere il patrimonio culturale
(specie il patrimonio archeologico) nel concetto di ambiente stesso[8] .
Riprendendo il parallelismo tutela
dell’ambiente - tutela del patrimonio culturale, richiamo, in campo ambientale,
i risultati positivi riscontrati spesso, a seguito di una ben ponderata
attività di normazione e d’amministrazione, il cui carattere incentivante
(“premiale”), è subordinato a rigorose norme di comportamento; il che non
significa affatto un abbassare la guardia in termini di divieti e di sanzioni.
Prospetto la possibilità di seguire
un’analoga politica nel settore del patrimonio culturale sommerso, anche per la
consapevolezza che le rilevanti implicazioni internazionalistiche - presenti,
pur in diversa misura, nei regimi di ogni tipo di spazio marino - rendono, in
concreto, difficile quegli interventi meramente inibitori e sanzionatori di cui
- come ho precisato - nessuno può disconoscere la funzione. Questi ultimi
semmai vanno sempre meglio articolati, assicurando in conformità all’art. 17
della Convenzione UNESCO, un adeguato (ed effettivo) grado di severità[9].Tutto
potrà realizzarsi soprattutto in sede di normativa interna d’enforcement,
affiancando sempre più alle tradizionali sanzioni d’ordine penale o a quelle
amministrative a carattere pecuniario, le nullità di atti di acquisizione e
trasferimento di proprietà, le decadenze di provvedimenti amministrativi
concessori o autorizzatori di attività nel settore che qui rileva, etc.).
Il quadro di proiezione che ho
delineato non può trascurare le strutture organizzatorie. Se si accetta, anche
in termini di chiave ermeneutica, un’impostazione concettuale che consideri la
protezione dei beni archeologici sommersi nell’ambito della più generale
protezione dell’ambiente marino, sarà più agevole (per il Mediterraneo, ad
esempio) riferirsi, con le opportune modifiche, alla già esistente struttura
competente per la realizzazione di quanto alla Convenzione di Barcellona
1976/95 e dei suoi protocolli. In caso contrario, tale sistema può costituire
almeno un ottimo modello da seguire, specie con riferimento alle convenzioni
regionali.
3. Richiamo alla Convenzione Salvage
1989.
Quanto ad antichi istituti del diritto
marittimo come il “salvage”, non si tratta di esorcizzarli sic et simpliciter,
non foss’altro perché ciò finirebbe con lo scoraggiare alcuni Stati (specie se
a tecnologia avanzata ed economicamente importanti) nelle decisioni di ratifica
o di adesione ad accordi internazionali di tutela, come la più volte citata
Convenzione UNESCO del 2001. Si tratta, invece, di modernizzare, per così dire,
tali istituti, con le opportune modifiche ed integrazioni che tengano conto,
all’interno della disciplina degli istituti stessi, delle esigenze di tutela di
quegli interessi dell’intera umanità, che di recente vengono avvertiti in modo
più diffuso[10].
È proprio il caso verificatosi nella
Convenzione internazionale di diritto privato uniforme che nel 1989 ha previsto
il nuovo regime del “salvage”, in luogo della precedente regolamentazione del
1910. È previsto (art.8) che il salvor “in perfoming the duty specified
in paragraf (a)” (cioè il dovere di “carry out the salvage operations”,
riguardanti, solitamente, la nave ed il carico) deve esercitare una “due care”
per prevenire o ridurre al minimo il danno all’ambiente.
Il richiamo di quest’ultima norma - a
prescindere dalla suindicata tesi che include nell’ambiente marino anche il
patrimonio culturale sommerso - viene qui compiuto per indicare un esempio
emblematico (e da imitare) di internalizzazione della tutela e quindi di
immedesimazione, in unica norma, della salvaguardia d’interessi privati e
pubblici. Di questi ultimi (ed in particolare degli sforzi compiuti per la
tutela dell’ambiente marino), la Convenzione salvage tiene conto ai fini della
determinazione del compenso per il salvor, previsto dall’art.13 o della
“special compensation” prevista dall’art.14.
Sul punto, una proposta, quale base di
discussione, è relativa all’emendamento della Convenzione salvage. Occorrerebbe
specificare espressamente e con ogni dettaglio l’obbligo della “due care” per
la salvaguardia del patrimonio culturale sommerso, con, a fronte, il diritto a
“premi”, costituendo una particolare variante di quanto già vigente per
l’ambiente in genere (art.13 lett. b, cit. e art.14 cit.).
Il parallelismo cui ho fatto cenno (o
meglio il rapporto di genere a specie) si coglie senza difficoltà, in occasione
di una normale operazione di salvage che non abbia, dunque, quale finalità
iniziale, la salvaguardia di beni relativi al patrimonio culturale. L’esigenza
(non secondaria) di tale tutela si presenta incidentalmente[11]
e si realizza garantendo una sicura conservazione in sito da parte del salvor.
Ancora, nel quadro del regime della
Convenzione Salvage, una diversa prospettazione, con conseguenze sulla natura e
qualificazione del compenso[12],
consiste nel considerare un “normale” salvataggio di properties ex art 1.c
della Convenzione citata, anche il lasciare in situ il bene (più concretamente
il complesso di beni culturali sommersi), adottando (con “useful result”)
ogni eventuale accorgimento per sottrarre i beni stessi dal “danger in
…waters” e cioè dal preesistente “pericolo di perdersi o più genericamente
dal c.d. marine peril?”[13]
Aggiungo che un salvage spontaneo in
situazioni veramente emergenziali che impongano d’agire immediatamente senza
neppure il tempo di avvertire le competenti autorità è da considerarsi privo
dei caratteri d’illiceità, anche nelle ipotesi in cui, proprio per le finalità
di conservazione (salvataggio), chiaramente non sia possibile lasciare il bene
sul fondo sommerso.[14]
Va da sé che, in tali situazioni, viene rafforzato l’obbligo d’immediata
comunicazione dell’avvenuto salvataggio e di immediato consequenziale
adempimento dei provvedimenti delle stesse autorità.
4. Ancora sulla Convenzione Salvage
1989 in relazione all’art. 4 della Convenzione UNESCO 2001 sulla protezione del
patrimonio archeologico sommerso. Limiti e funzioni delle convenzioni regionali
previste dall’art. 6 della Convenzione UCH.
Giungo ad uno dei punti nodali
dell’intera problematica: le fattispecie in cui oggetto primario e
“programmato” del salvage siano proprio i beni culturali
sommersi.
È evidente che , in concreto, trattasi
di situazioni che, per quanto riguarda il diritto italiano, si inquadravano
generalmente nell’istituto del recupero disciplinato dagli artt. 501 e segg.
del codice della navigazione e non in quelli dell’assistenza o del salvataggio.
Una situazione giuridicamente nuova si è verificata con l’entrata in vigore
della più volte citata “International Convention on Salvage 1989” firmata a
Londra il 29 aprile 1989 . Questo accordo internazionale ha il grado massimo di
sfera d’applicazione e di “invasività” nei diritti interni, dal momento che
disciplina ogni intervento di “soccorso in acqua” avente per oggetto navi o
ogni altro bene in pericolo in acque navigabili ed in ogni altro tipo di acque.
Non si tratta, dunque, d’individuare, in termini di diritto internazionale
privato, un qualunque point de rattachement (nazionalità straniera della
nave soccorritrice, alto mare etc.). Infatti, il regime di diritto privato
uniforme ha sostituito la legge nazionale a tutti gli effetti, se si escludono
pochissime eccezioni previste dalla Convenzione stessa (navi di Stato,
piattaforme petrolifere e unità adibite alla perforazione del fondo marino a
scopi di ricerca e sfruttamento di minerali). Sono previste (art. 30) delle
riserve per operazioni in acque interne e quando tutte le parti interessate
abbiano la nazionalità dello Stato interessato. L’Italia, però, non ha
esercitato tale potere di riserva, così come non l’ha esercitato per i beni del
patrimonio culturale marittimo d’interesse preistorico, archeologico e storico.
Preciso che, in mancanza di un testo
ufficiale lingua italiana, continuo ad usare il termine “salvage” tratto dal
testo in lingua inglese, perché, come ho gia fatto cenno, tale termine
comprende non solo l’assistenza ed il salvataggio, ma (per un ormai largo
convincimento che si estende a Paesi di civil law [15])
anche il recupero dei relitti, cioè quella categoria di beni che hanno
irreversibilmente perduto la loro originaria funzione (la distinzione, in
diritto marittimo, è importante soprattutto per le navi).
L’estensione del regime del salvage al recupero è convincente non
soltanto sulla base di un’indagine ermeneutica sulla parola “salvage”
nell’ambito dei Paesi che adottano regimi di common law , ma soprattutto perché
(a parte la problematica specifica della conservazione in situ) il recupero può
considerarsi un salvataggio dal pericolo che il bene sommerso si perda
definitivamente nei fondi marini o si deteriori sempre più e addirittura si
possa dissolvere.
Che in linea generale la Convenzione
Salvage 1989 si applichi anche ai beni culturali sommersi mi sembra certo dal
momento che, per escluderne l’applicazione uno Stato deve esercitare la
specifica riserva prevista dal citato art. 30[16].
Dal canto suo, la Convenzione UNESCO 2001, all’art.4, si limita, ben
opportunamente, a dettare le condizioni per tale applicazione (autorizzazione
da parte delle autorità competenti, svolgimento delle operazioni di salvage in
conformità a quanto prescrive la convenzione, comprese le regole tecniche
annesse, garanzia della massima protezione dei beni culturali sommersi durante
le operazioni).
Da quest’ultimo argomento traggo spunto
per esprimere le mie perplessità su eventuali convenzioni “regionali” (per il
Mediterraneo come per altri spazi marini) che, formate sulla base dell’art. 6
della Convenzione UNESCO del 2001, prevedano l’inapplicabilità assoluta del
regime del law of salvage e del law of finds.
È vero (e ben opportuno) che tale norma
stabilisca che “… States may, in such agreements, adopt rules and
regulations which would ensure better protection of underwater cultural
heritage than those adopted in this Convention”. Ciò, tuttavia, non significa la possibilità che in
sede regionale si disapplichi un altro intero articolo stabilendone una sorta
di abrogazione territoriale. Ritengo, invece, legittimo un regime supplementare
di restrizioni rispetto a quanto (forse troppo genericamente) previsto
dall’art. 4. A tale risultato potrebbe pervenirsi anche in applicazione di
criteri d’ordine amministrativo, ragionevolmente rigorosi ai fini della
concessione delle autorizzazioni di operazioni di salvage o relativamente alle
garanzie di cui alla lett. c dello stesso art. 4. I medesimi criteri - inseriti
nelle convenzioni regionali, anche sotto forma di annessi - assicurerebbero
meglio sia l’uniformità degli standards nel residuo esercizio del potere discrezionale
di competenza delle competenti autorità, sia una maggiore imparzialità di
comportamenti .
Ed ancora legittima (ed opportuna anche
ai fini delle maggiori restrizioni o dei dinieghi per le operazioni di
“salvage” di cui sopra ), mi sembra la previsione, nelle convenzioni regionali,
di liste di “aree specialmente protette d’importanza culturale”. In tale ambito
lo strumento della cooperazione tra gli Stati interessati riceverebbe
un’importante occasione di realizzazione. A quest’ultimo proposito apparirebbe
più che evidente e troverebbe conferma l’analogia (quanto meno di premesse
concettuali) rispetto alle liste di cui al nuovo protocollo sulle aree marine
protette sottoscritto nel quadro della convenzione di Barcellona 1976/95.
5. L’omessa disciplina circa il
regime dominicale del bene culturale sommerso nella Convenzione UNESCO 2001, a
fronte del regime di diritto privato uniforme contenuto nella Salvage 1989 che
esclude l’acquisizione in proprietà del bene salvato da parte del salvor.
Significato della preferenza per la conservazione in situ e del divieto di
sfruttamento commerciale del patrimonio culturale sommerso.
Ho cercato di approfondire il perché di
una diffusa tendenza alla “esorcizzazione” di ogni regime giuridico del salvage
dal settore delle attività riguardante i beni culturali sommersi. Mi riservo di
ritornare sullo specifico argomento in un prossimo scritto.
In questa sede mi limito ad esprimere
l’opinione che, anzitutto, tale tendenza trova comprensione in un modo di
procedere più volte storicamente verificatosi, in particolare in aree fuori
(almeno sotto questo profilo) dalla giurisdizione dei singoli Stati (il caso
Titanic - il cui periodo di sommersione è, però, inferiore ai 100 anni -
costituisce l’esempio più famoso, ma non è raro). Tale modo di procedere ha
riguardato operazioni di ricerca e di recupero che tanta parte dell’opinione
pubblica mondiale (non soltanto gli studiosi del settore) ha giudicato come un
vero e proprio insulto ai più profondi valori di ogni civiltà (la conservazione
del patrimonio culturale, delle vestigia storiche, il rispetto dei siti
divenuti sepoltura dei naufraghi[17]),
allo scopo di soddisfare forme di speculazione commerciale senza scrupoli con
l’aiuto delle più avanzate tecnologie.
Il dato che registro prescinde, in via
preliminare, da considerazioni circa la legittimità formale di tali operazioni
condotte in mare o circa l’errata interpretazione delle normative interne ed
internazionali esistenti. Sta di fatto che proprio il giurista (senza
distinzione di specializzazioni), se registra una discrasia tra realtà
giuridico-formale e comune modo di sentire della collettività, ha il dovere di
studiare e proporre nuove soluzioni, interpretative o normative per eliminare
il fenomeno. È certo, comunque, che ove la situazione attuale venga prospettata
in termini di responsabilità (non necessariamente giuridica) degli Stati, è
agevole notare che proprio la mancanza di norme internazionali in vigore per la
protezione adeguata del patrimonio archeologico sommerso, avrebbe dovuto
indurre ogni Stato ad un maggior controllo sull’attività delle navi battenti la
propria bandiera, mitigando il “principio” del laissez faire-laissez passer[18].
E tuttavia le suesposte gravi
disfunzioni non mi sembrano imputabili, puramente e semplicemente, all’istituto
del salvage, come delineatosi nella dottrina del diritto internazionale
uniforme, che trova la massima espressione di diritto positivo nella
Convenzione “Salvage 1989”.
È casuale che la mancata ratifica o
adesione (ad oggi) di quest’ultima Convenzione riguardi proprio alcuni di quei
Paesi a tecnologia di settore molto avanzata da cui provengono le società
“accusate” di attentare alla conservazione e corretta fruizione del patrimonio
culturale sommerso?
È casuale che alcuni dei Paesi che non
hanno sottoscritto la Convenzione Salvage 1989 coincidono con alcuni di quei
Paesi che non hanno sottoscritto la Convenzione UNESCO 2001?
Sono ben consapevole che ogni
superficiale generalizzazione è agli antipodi del più elementare impegno
scientifico[19]; ho posto
gli interrogativi come semplice stimolo dialettico e con il massimo rispetto
per la diversità di opinioni e di decisioni adottate dalle singole entità che
costituiscono la comunità internazionale (peraltro, do atto che anche
all’interno di tali Paesi fervono vivi ed intensi dibattiti sull’argomento, il
che spinge, per il futuro, ad un cauto ottimismo anche in relazione ad alcune
dichiarazioni “aperturiste” in sede di lavori preparatori dell’UCH).
In realtà, il regime di diritto
internazionale uniforme della Salvage 1989 - analogamente a quello originario
italiano e di altri Paesi - non incide sulla proprietà del bene oggetto delle
relative operazioni. Al salvor, come già rilevato, spetta soltanto, in presenza
di risultato utile, il compenso ex art.13 della Convenzione[20]
o con riferimento all’attività relativa alla tutela ambientale, una special
compensation ex art. 14.
Incidentalmente osservo che ai fini della protezione del patrimonio
culturale sommerso il carattere di proprietà pubblica o privata del bene
culturale è particolarmente rilevante, ma solo in funzione strumentale, per una
corretta destinazione del bene stesso, per una migliore conservazione e per una
più diffusa fruizione da parte della collettività. A tal proposito,
occorrerebbe una maggiore attenzione alle modalità di management ed ai
controlli anche sotto il profilo delle “tariffe” fissate per il pubblico e
delle restrizioni non giustificate da finalità scientifiche e di protezione[21].
La Convenzione UNESCO (soprattutto per
le note ragioni relative alla ricerca di una più ampia piattaforma di
consensi), non è intervenuta a disciplinare autonomamente tali aspetti
dominicali, concentrando finalisticamente l’articolato normativo sulla
conservazione dei beni culturali sommersi [22].
Semmai, l’attività di recupero (recovery), nel senso stretto e comune del
termine, è subordinata al principio (preferenziale) espresso dall’art.2.5 di
tale Convenzione: “The preservation in situ of underwater cultural heritage
shall be considered as first option before allowing or engaging in any
activities directed at this heritage”.
Non mi pare, inoltre, che il divieto di
sfruttamento commerciale del patrimonio culturale sommerso, espresso nel
successivo principio n. 7 dello stesso articolo, interferisca direttamente sul
regime della Salvage 1989, perché l’interesse economico del salvor , come s’è
precisato più volte, riguarda il compenso in denaro a fronte delle operazioni
svolte. Richiamo, sul punto, la modalità di formulazione dell’art. 14 della
Convenzione UNESCO 2001, per sottolineare che le previsioni di misure di
prevenzione circa l’ingresso nei territori degli Stati parte di beni del
patrimonio culturale sommerso o le contrattazioni relative a tali beni o,
infine, il possesso dei beni stessi riguardano oltre i casi d’illecita
esportazione, soltanto i casi in cui “recovery was contrary to this
Convention”.
6. Le
significative differenze tra law of salvage e law of find. Richiamo
all’Abandoned Shipwreck Act del 1987
Dopo le osservazioni e considerazioni
che precedono ritorno all’interrogativo che mi sono posto relativamente alle
cause di un rigetto totale dell’istituto del salvage in riferimento alla
materia che ci occupa, da parte di molti studiosi, archeologi e giuristi; ciò
malgrado il personale convincimento che, in più d’un caso, tale istituto possa
rendere - con le rigorose limitazioni di una disciplina pubblicistica - utili
servizi. Ritengo, ad integrazione di quanto ho esposto, che al disegno di
assoluto “rigetto” contribuisca una certa indiscriminata accomunazione del law
of finds e del law of salvage. In realtà, le influenze dei due istituti in
ordine ad un’efficace protezione del patrimonio culturale sommerso hanno più
d’un carattere differenziale.
Tra l’altro, per il ritrovamento di
beni nei fondi sommersi manca una disciplina di diritto privato uniforme, a
meno che non si voglia aderire a quella corrente di pensiero che estende ancora
il concetto di “salvage” per includere casi di “find”. Tale estensione,
peraltro, risulta difficilmente confutabile se - per le più diverse ragioni
(lecite o illecite)- al momento del ritrovamento è seguita una vera e propria
operazione di recupero.
Vorrei anche precisare che, ai fini del
diritto marittimo tradizionalmente inteso (ed al quale mi limito), ciò che
certamente rilevano (e sono regolati da molte leggi nazionali) sono i
ritrovamenti casuali e non l’individuazione di relitti marini sia essa casuale,
sia dopo apposite ricerche. [23]
(Non foss’altro che per coerenza, riconosco che in passato ho sostenuto che per
i beni culturali sommersi la necessità di armonizzare legislazione
marittimistica e legislazione di tutela può indurre a sostenere che anche la
semplice individuazione dia diritto al premio ex art. 510 cod. nav. anche senza
la materiale apprensione e riconsegna[24]).
Il ritrovamento nel senso così
ristretto trova da tempo una disciplina giuridica nei vari Paesi. Il codice
italiano della navigazione (emanato com’è noto nel lontano 1942) disciplina la
fattispecie negli artt. 510-513. Il regime, secondo un’opinione già espressa da
tempo con varie argomentazioni, concerne qualunque bene ritrovato in mare,
senza che possano distinguersi - sulla base del dato normativo - relitti che
provengano o meno dalla navigazione marittima e soprattutto senza che possa
escludersi a priori la categoria dei beni culturali per l’indimostrata ragione
della mancanza certa di un proprietario. (Osservo, peraltro, che la Convenzione
UNESCO 2001, nel prendere in considerazione quali beni del patrimonio culturale
sommerso oggetti la cui permanenza nel fondo marino abbia un minimo di cento
anni, rafforza la tesi di una configurazione omnicomprensiva del concetto di
relitto, quale punto di partenza che fa salve le subspecificazioni con relative
norme di protezione).
Il codice della navigazione impone al
ritrovatore l’obbligo della denuncia e della consegna al proprietario; se
quest’ultimo non è individuato il bene va consegnato all’autorità marittima. Al
ritrovatore spetta il rimborso delle spese e un premio pari alla terza parte
del valore delle cose ritrovate. Se il proprietario non si presenta, si procede
alla custodia e poi alla vendita; il ricavato, detratte le spese ed il premio
per il ritrovatore è devoluto per finalità previdenziali in favore dei
marittimi.
Gli oggetti d’interesse artistico,
storico, archeologico ed etnografico, nonché per le armi, le munizioni e gli
apparecchi militari, quando il proprietario non curi di ritirarli ovvero non si
presenti nei termini normativamente indicati, sono devoluti allo Stato (ed
oggi, alle Regioni, quando i nuovi statuti lo prevedano), salvo in ogni caso il
diritto del ritrovatore all’indennità ed al compenso cui s’è gia fatto cenno in
relazione al regime dei relitti comuni.
Da quanto sopra si evince che, nel
codice italiano, neppure la normativa sui ritrovamenti di cose comuni (cioè non
costituenti patrimonio culturale) prevede in alcun caso l’acquisto in proprietà
di tutto o parte dei beni ritrovati[25] .
Il problema si pone semmai per quei
Paesi che abbiano regimi diversi che comportino trasferimenti di proprietà in
favore del ritrovatore. Tali regimi non trovano, come s’è specificato, una
regolamentazione superiore per la mancanza di una normativa privata uniforme in
tema di ritrovamenti. Sotto questo profilo comprendo meglio, rispetto
all’istituto del salvage, le maggiori cautele ed i timori nei confronti del law
of finds, riguardo al quale in una Convenzione internazionale non possono che
usarsi espressioni di carattere generale, senza poter ovviamente operare una
lista…tra regimi nazionali di ritrovamenti compatibili e regimi incompatibili.
Ma anche per questi ultimi, considerato che la Convenzione UNESCO non si occupa
del regime dominicale ma della conservazione del patrimonio, un conflitto tra norma
interna ed internazionale si pone con certezza solo nella misura in cui si
realizzi un pregiudizio a tali finalità.
Avuto riguardo alle normative interne
vigenti, i maggiori rischi di confliggenza si rinvengono in quei sistemi di
common law e comunque in quei Paesi - U.S.A. compresi[26]-
nei quali il law of finds, in relazione al ritrovamento di beni “abbandonati”,
si fonda sul principio finders, keepers’ applies[27].
Le opinioni sugli effetti “poco sociali” di tale principio trovano spazio
anche nella letteratura giuridica statunitense[28], in relazione a qualunque bene ritrovato in
mare. A maggior ragione, questa valutazione negativa d’ordine sociale vale
nello specifico settore dei beni culturali sommersi.
A tale situazione, per ciò che riguarda
proprio gli Stati Uniti, s’è cercato un rimedio con il largamente noto Abandoned
Shipwrecks Act del 1987[29].
Nell’ottica delle finalità di
protezione del patrimonio culturale sommerso, il testo - pur segnando un non
trascurabile passo in avanti nell’ambito del diritto interno degli U.S.A.-
appare insufficiente poiché, per raggiungere le finalità che si propone,
enfatizza (a mio avviso non opportunamente) il requisito dell’abbandono del
relitto, quale presupposto per l’esclusione del law of salvage . Ciò che
ritengo più sicuramente criticabile è porre a carico di chi invoca
l’applicazione dell’ASA l’onere probatorio circa la situazione di “abbandono”
del bene, in luogo di prevedere delle presunzioni iuris tantum. La probatio,
talora, diventa diabolica, se si ritiene che ci si possa avvalere di
presunzioni semplici (con la presenza di indizi gravi, precisi e concordanti) e
se l’onere probatorio, in luogo di criteri “obiettivistici”, privilegia (e
comunque ritiene decisivi) criteri “soggettivistici “ (estensione dell’onere probatorio
all’animus derelinquendi; indagine sulla spes reverendi o recuperandi)[30].
Non sembri contraddittorio se aggiungo
- quale semplice inciso in termini di mera teoria generale (e quindi
prescindendo dall’ASA) - che non ritengo convincenti quelle costruzioni
concettuali (corrispondano o no a norme di diritto positivo) le quali
pervengono, all’affermazione che i beni archeologici sommersi, in
considerazione del lungo tempo dalla conservazione, sono da considerarsi -
antecedentemente al ritrovamento- res nullius. Non si tiene in debito conto la
distinzione tra beni vacuae possessionis e beni vacuae proprietatis[31].
In realtà, la mia personale opinione è
che un’efficace tutela del patrimonio storico-culturale sommerso si ottiene con
criteri di massima obiettivizzazione , che, cioè, facciano riferimento alla
categoria dei beni (in tal senso si veda l’art.1 dell’UCH) e sanciscano uno
status specifico di tipo eminentemente pubblicistico, indipendentemente da
indagini sull’effettivo abbandono e sullo status di beni vacuae proprietatis o
meramente vacuae possessionis[32].
Ritornando all’Abandoned Shipwrecks Act 1987, ritengo che - una volta
raggiunta la prova dell’abbandono, ai fini della disapplicazione della normativa
vigente negli USA in tema di salvage - è relativamente più agevole disapplicare
il generale law of finds ed affermare la titolarità statale, perché, a questo
punto, occorrerà soltanto individuare nel bene, con criterio strettamente
obiettivistico, uno dei tre caratteri indicati dal legislatore: a) embedded in
submerged lands of a State; b) embedded in coralline formations protetect by a
State on submerged lands of a State; or c) submerged lands of a State and
included in or determined eligible for inclusion in the National Register.
A quest’ultimo proposito, può formularsi una seconda osservazione circa i limiti ristretti di efficacia dell’Abandoned Shipwreck Act del 1987. I criteri di rigida applicazione territoriale - in qualche modo “coerenti” con il quadro dell’intero impianto normativo - non consentono, sia pure con riguardo alle navi di nazionalità statunitense, di estendere le regole agli altri spazi marini sulla base della legge della bandiera. Vanno, inoltre, richiamate alcune perplessità circa l’effettiva rilevanza della distinzione tra bene “embedded “ e bene “on submerged lands” con la conseguenza (positiva, nell’ottica protezionistica!) dedotta da parte della dottrina circa l’applicabilità dell’ASA a tutti i relitti marini “abbandonati” nelle aree territoriali indicate.
Va comunque riconosciuto che l‘entrata
in vigore dell’ASA ha consentito ai singoli Stati della federazione un
controllo sulle operazioni di ricerca in mare e di attività successive, dando
anche la legittimazione al rilascio di apposite autorizzazioni . L’esercizio di
tali competenze è possibile dopo l’accertamento da parte delle autorità
federali dello stato di “abbandono” del relitto[33]
.
7. Considerazioni di sintesi.
Uno scritto introduttivo, per
definizione, non richiede vere e proprie conclusioni. Posso, semmai riassumere
quanto ho cercato di “prospettare” (ancora una volta uso questo termine che nel
diritto processuale indica l’esposizione di tesi e le proposte di soluzioni
anteriormente all’inizio di un contraddittorio).
Ho cercato di rifuggire - ove
“tecnicamente” possibile - da rigide classificazioni, separazioni, dicotomie
(e, talora, ipotizzabili antinomie), nel corso della rappresentazione del
quadro normativo sulla materia.
Mi riferisco principalmente a: diritto
interno e diritto internazionale; regole di diritto pubblico (a tutela
dell’interesse pubblico) e regole di diritto privato (a tutela dell’interesse
privato); maritime law e law of the sea; regime giuridico dell’ambiente marino,
in un’accezione esclusivamente (o quasi) chimico- fisica, e costruendo regime
di adeguata protezione dell’underwater cultural heritage; salvage law
(in particolare, “Salvage 1989”) e normative a tutela del patrimonio
archeologico sommerso (UCH, future convenzioni regionali); Stati e Comunità
locali (nel senso più ampio dell’espressione) … .
Le linee di questo scritto, sia negli aspetti ermeneutici delle regole
esistenti, sia per gli aspetti propositivi, hanno cercato di non minimizzare
diversità concettuali e pericoli di abusi e distorsioni di alcuni istituti, ma
hanno indicato percorsi finalizzati a soluzioni delle problematiche in termini
di armonizzazione di corpi normativi (specie nel diritto uniforme) e di
integrazione, limitazione ed esplicazione di regole giuridiche esistenti, con
il meccanismo, secondo i casi, dei protocolli o delle leggi interne di
modifica.
L’indicazione di tali percorsi
presuppone, per la loro realizzazione, una forte e ampia base collaborativa che
coinvolga anche i privati e le imprese. Viene, inoltre, ritenuto necessario,
l’affiancamento di un “diritto premiale” alle normative sanzionatorie, intese
in un significato esteso[34],
comprensivo delle nullità di atti, delle decadenze da concessioni etc.; rimedi
questi ultimi che talora si rivelano di maggiore efficacia deterrente rispetto
al pagamento di multe e ammende e persino delle pene detentive, obiettivamente
di difficile applicazione .
Tutto ciò dà per accertata l’esistenza di un denominatore comune senza
il quale nessuna tesi giuridica potrebbe avere “diritto d’ingresso”
nell’incontro internazionale da cui trae spunto questo scritto. È quasi
certamente ovvio precisare che alludo alla effettiva volontà di assicurare
realisticamente ed al massimo livello di risultati concreti la protezione del
patrimonio culturale sommerso, quale “elemento particolarmente importante nella
storia dei popoli, delle nazioni e delle loro relazioni” [35].
V’è certamente un forte legame tra norme di protezione del bene
culturale sommerso e regime di proprietà del bene stesso. Su quest’ultimo profilo
v’è ancora molto (di specifico) da progettare, possibilmente nell’ambito del
diritto uniforme. Sono particolarmente sferzanti (ma vere) le parole usate da un autorevole
studioso in occasione del commento della dichiarazione di Siracusa del marzo 2001:
il convient d’éviter dans toute la mesure du possibile les fouilles qui
n’auraient d’autre but que de vendre les parties d’épaves ou de cargaisons aux
enchères dans des salles des ventes comme cela s’est produit par le passée[36]
.
* Relazione introduttiva svolta nel Convegno
Internazionale su La cooperazione nel Mediterraneo per la protezione del
patrimonio culturale subacqueo, Siracusa, 3-5 aprile 2003.
** Professore
ordinario di diritto della navigazione nell’Università di Palermo.
[1] Mi riferisco a Tullio Scovazzi, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Milano-Bicocca.
[2] La relazione è della prof. Forlati Picchio che viene richiamata sul punto in The protection of the underwater cultural heritage. Legal aspects , edited by Camarda e Scovazzi, Milano, 2002, 293.
[3] Per il rapporto di sintesi di cui al testo v. The protection…, cit., 294-295.
[4] Traffici marittimi, zona economica esclusiva e cooperazione trasfrontaliera nei mari chiusi e semichiusi, Quaderno n. 33, Lega Navale Italiana, Agrigento 1988.
[5] La nuova norma costituzionale prevede testualmente che “spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.
[6] Gonzales, in uno scritto che viene distribuito, all’inizio del convegno in riferimento, quale base per una relazione programmata, sottolinea la maggiore e comprensibile propensione degli Stati costieri di mari chiusi e semichiusi a redigere progetti di convenzioni regionali, rispetto ad una minore propensione da parte degli Stati oceanici .
[7] Le recenti leggi che hanno attribuito in molti settori la giurisdizione (civile o amministrativa) seguendo il criterio della materia provano, con angolazione opposta, il medesimo assunto principale di cui al testo e cioè la sempre crescente difficoltà di individuare le finalità primarie (pubblicistiche o privatistiche) di molte norme giuridiche.
[8] Quanto alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, osservo che una concezione più restrittiva riguarda non tanto la definizione di ambiente marino e di conseguente danno ambientale comprensivo del patrimonio culturale sommerso, quanto l’inclusione di tale patrimonio tra le risorse che ricevono tutela con l’istituto delle zone economiche esclusive.
[9] Sull’adeguato grado di severità e sulla
cooperazione per un’effettiva applicazione, insiste espressamente l’art.17 di
cui al testo: 1. Each State Party shall impose sanctions for violations
of measures it has taken to implement this Convention. 2. Sanctions applicable
in respect of violations shall be adequate in severity to be effective in
securing compliance with this Convention and to discourage violations wherever
they occur and shall deprive offenders of the benefit deriving from their illegal
activities. 3. States Parties shall cooperate to ensure enforcement of
sanctions imposed under this article”.
[10] L’esigenza di modifiche ed integrazioni di convenzioni che “possano” apparire, in linea di principio, rivolte alla tutela d’interessi configgenti con quelli della tutela del patrimonio archeologico sommerse nasce, più in generale, dal fatto che frequentemente non tutti gli Stati parte di tali convenzioni ratificano o aderiscono agli accordi di tutela del patrimonio culturale in argomento. Ed è ipotesi quasi del tutto teorica la denuncia di convenzioni di diritto privato uniforme già in vigore, astrattamente esercitabile (per esempio) con riferimento alla Salvage 1989, sulla base dell’art. 31 di quest’ultimo testo (è, invece, realisticamente ipotizzabile, per rimanere nell’esempio, che un protocollo alla Salvage 1989, nel prevedere le modifiche ed integrazioni rafforzative della tutela del patrimonio archeologico sommerso, contenga l’obbligo di denuncia dell’originaria convenzione al momento della ratifica del protocollo stesso).
[11]In logica connessione e più in generale (quindi non necessariamente nel contesto di classiche e non contestate operazioni di salvage), richiamo quanto già prevede l’art. 5 della Convenzione UNESCO del 2001: Each State Party shall use the best praticable means its disposal to prevent or mitigate any adverse effects that might arise from activities under its jurisdiction incidentally affecting underwater cultural heritage”.
[12] Nello sviluppo meramente concettuale della prospettazione di cui al testo, prescindo da norme di diversi livelli, che possano applicarsi a singole fattispecie sulla base del principio di territorialità o di soggettività (nazionalità della nave che compie le operazioni, etc.) e vengano a paralizzare o modificare il diritto al compenso di cui al testo stesso.
[13] V. sul punto la decisione dei giudici statunitensi sul caso Columbus-America (4th circuit , 1992; 974 F 2d 469); decisione con la quale concordo limitatamente al concetto di marine peril ed all’istituto marittimistico in cui s’inquadra; tale concetto ed il correlato istituto sono ritenuti applicabili (fatte salve specifiche deroghe contenute anche in altri corpi normativi, aggiungo qui) a tutti i relitti di navi.
[14] Sia pure in un contesto di regolamentazione specifica ( art 17 delle Rules concerning activities directed at underwater cultural heritage, annesse , quale parte integrante , alla convenzione UNESCO 2001) i “cases of emergency to protect underwater cultural heritage” sono espressamente considerati come casi in cui gli interventi possono compiersi senza un “adeguate funding base”.
[15] Berlingieri, L’introduzione nell’ordinamento italiano della Convenzione del 1989 sul salvataggio: suoi effetti sulla normativa previdente, in Dir. mar., 1988, 1371.
[16] E’ significativo il fatto che la Francia con il decreto del 23 aprile 2002 che concerne la pubblicazione della Convenzione si sia riservata di esercitare la…riserva relativamente alla sottrazione dei beni archeologici sommersi al regime della Salvage 1989. Considerato che non risultano emanati decreti successivi in proposito, è da ritenersi che la Convenzione attualmente sia applicabile anche ai beni archeologici sommersi. La transitorietà della fase normativa trova riscontro nell’astensione di questo stesso Paese al momento della votazione del testo della Convenzione UNESCO 2001, ufficialmente motivata con il dissenso sulla questione delle navi di Stato e dei diritti relativi alla giurisdizione.E’ però parimenti significativo che quel Paese abbia dichiarato di osservare sin da ora, per decisione unilaterale, le regole tecniche costituenti l’annesso della Convenzione (Statements on vote during debates in Commission IV on Culture, 29 October 2001…., in The protection…cit., 427).
[17] V. ora l’art. 2. 9 della Convenzione UNESCO:
States parties shall ensure that proper respect is given to all human
remains lacated in maritime waters.
[18] Quando entrerà
in vigore la Convenzione UNESCO 2001, sarà imperativa per gli Stati - parte la
regola di cui all’art. 16 della Convenzione stessa: States Parties shall
take all practicable measures to ensure that their nationals and vessels flying
their flag do not engage in any activity directed at underwater cultural
heritage in a manner not in conformity with this Convention.
[19] La lettura dei lavori preparatori alle Convenzioni di cui al testo può contribuire a fornire risposte maggiormente approfondite; si veda ad esempio, la dichiarazione degli U.S.A., in The Protection …, cit. 433.
[20] Fuori dal quadro della Convenzione Salvage 1989 richiamo, ai soli fini dei criteri per la determinazione del compenso per il salvor (e non certamente per le problematiche circa la proprietà dei beni oggetto di salvage ) una decisione del 1992 emessa da una corte statunitense (Fourth Circuit) nel caso Columbus- America (974 F.2d 468-469). In tale decisioni ai tradizionali criteri di quantificazione viene aggiunto quello relativo al “degree to which the salvor have worked to protect the histotical and archaelogical value of the wreck and items salved”.
[21] In Italia, la recente legge 15 giugno 2002 n.112 che istituisce la società “Patrimonio s.p.a.” ha l’intento di gestire anche beni archeologici, pur nella dichiarata volontà di salvaguardia delle caratteristiche tipiche della demanialità di tale tipo di complessi di beni e delle finalità di uso pubblico. A prescindere dalla problematiche sulle competenze (si vedano, in particolare, quelle della regione siciliana), mi sembra che alcune parti di tale legge suscitino perplessità perché insufficienti ad arginare il pericolo di una privatizzazione tout court, ed a garantire gli obiettivi primari d’interesse pubblico più volte sottolineati anche in questo scritto.
[22] V. ,”This
Convention aims to ensure strengthen the protection of underwater cultural heritage
…(art.2.1).
[23] Richiamo in proposito,l’esempio della legislazione francese del 1989 che, modificando la normativa precedente, ha voluto incentivare le segnalazioni alla competente autorità , da parte di privati, di giacimenti o comunque di beni culturali sommersi da lasciare in situ, ad eccezione –mi sembra logico ritenere- di situazioni di particolare emergenza per la conservazione del bene stesso. E’ evidente che l’incentivo (pagamento di un “premio” non costituente indennizzo) funziona se il denaro risulti normalmente in quantità congrua. Per altre ed intuibili ragioni, la nuova disciplina ha trovato più concreta applicazione per i giacimenti e non per i singoli beni, per i quali il premio (non lo denomino indennizzo) a seguito della consegna del bene trovato in mare, aveva registrato una più sollecita collaborazione dei privati
[24] I beni culturali marini tra pluralità ordinamentali, principi generali, diritto della navigazione ed altri corpi normativi speciali, in Dir. Trasp. 1995, 427.
[25] Un analogo regime (anche se con maggiori margini di flessibilità) si rinviene nell’ordinamento spagnolo, v. Arroyo, Curso de derecho maritimo, Barcelona, 2001, 743, ove, tra l’altro, si legge: “lo más importante es destacar que las cosas halladas non pertenecen automática, ni íntegramente, al hallador” .
[26] Hawkins, Reconsidering
the maritime law of find and salvage: A Free market alternative, in The
George Washington Journal of International Law and Economics, 1996 (vol.30 n.1),
75) definisce il law of finds una creazione del diritto americano a differenza
del salvage. Nello stesso testo
si leggono le motivazioni critiche all’applicazione del Law of sovereign
prerogative che, secondo l’A., non incentiverebbe sufficientemente i salvors.
Per una panoramica dei vari regimi normativi in vari Paesi di common law o civil law, v. Ferro, Protection of the underwater cultural heritage: an anilysis of some domestic legislations, in The protection…cit., 317. Con particolare riferimento al Regno Unito, v. Fletcher-Tomenius/Williams, Regulating recovery of historic wreck in U.K. waters: when is a salvor not a salvor?, in Lloyd’s Marittime and Commercial Law Quarterly, 2000, p.I (February), 208 L’A. indica la possibilità di conciliare l’esigenza di protezione dei relitti storici e quella di preservare i compensi relativi al salvage attraverso la contestuale applicazione del Protection of Wrecks Act 1973 e del Merchant Shipping Act 1995, 1243. Successivamente il National Heritage Act 2002 ha esteso ai beni culturali sommersi nelle acque territoriali, l’applicazione del National Heritage Act 1983. Per l’Italia v. anche Raccolta di documenti di diritto italiano( a cura di Camarda e Montebello), Palermo 2001.
[27] V. Martha’s
Vineyard Scuba Headquarters Inc. v. Unidentified, Wrecked and Abandoned
Steam Vessel, 833, F. 2d 1059, 1065 (1st Circ. 1987).
[28] Wilder, Application
of Salvage Law and the Law of Finds to Sunken Shipwreck Discoveries, in
Defense Counsel Journal, 2000, 93.
[29] Per un’analisi tendente a dimostrare che, in
applicazione dell’Abandoned Shipwrecks Act 1987, tutti
i relitti
abbandonati appartengono allo Stato, v. Meazell,
Being and Embeddedness: The Abandoned Shipwreck Act’s Historical Proxy Is
All at Sea, in Georgia Law Review, (2000, 34, 3), 1743.
[30] Sulla prova dell’abbandono e, più in generale, su
alcune critiche all’ASA, v. tra gli altri, Lorello,
The Abandoned Shipwreck Act of 1987. Navigation through the Fog,
in Gonzaga Law Review 1999/2000 (vol. 35, 75).
[31] Per rinvii bibliografici sul punto v. i miei scritti, I beni culturali marini tra pluralità ordinamentali, principi generali, diritto della navigazione ed altri corpi normativi speciali, cit., 426; I relitti marini. Problematiche giuridiche e linee per una nuova ricerca, in Trasporti, 1996, n.69-70, pag. 77.
[32] La linea distintiva tra proprietà e possesso condurrebbe a complicare il dibattito (e ad alimentare i contenziosi) per via del principio dell’imprescrittibilità del diritto di proprietà stabilito in molti ordinamenti (per l’ordinamento italiano, arg. ex art. 948, ultimo comma, cod. civ.).
[33] V. Giesecke, The Abandoned Shipwreck Act Through the Eyes of its Drafter, in Journal Maritime Law and Commerce, 1999 (vol. 30. 1), 167.
[34] Per un approfondimento analitico circa il concetto di sanzione nel significato massimamente ampio indicato nel testo, rinvio al mio scritto, I profili sanzionatori nell’evoluzione del diritto della navigazione e dell’ambiente marino (con varie note bibliografiche), Relazione svolta nell’incontro di studio organizzato dal C.S.M. nell’ottobre 1998 e pubblicata in Ann. dell’Ist.di dir.del lav. e nav. dell’Università di Palermo, 1999, 7.
[35] V. Preambolo UCH.
[36] Beurier, Commentaire
de la Déclaration de Syracuse sur le patrimoine culturel sous-marin de la Mer
Méditerranée, in The protection…, cit. 283.
data di pubblicazione: 20 settembre 2003