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Vol. IV/2006

 

Casella di testo:  Rivista di Diritto dell'Economia, dei Trasporti e dell'Ambiente
	                                                                         
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La crisi dell’impresa tra insolvenza e difficoltà -  rimedi vecchi e nuovi – il concordato   stragiudiziale.

 

Emilio Mormino

 

1. Linee guida per la soluzione della crisi dell’impresa

2. La crisi dell’impresa - prevenzione e risanamento

3. La legge fallimentare del 1942 – rigidità del sistema ed effetti negativi

4. Il concordato stragiudiziale

 

1. Linee guida per la soluzione della crisi dell’impresa

La crisi dell’impresa coinvolge il sistema produttivo. La grande impresa influenza negativamente, sia sotto il profilo economico, che occupazionale il macro-sistema ma non possono esser trascurate le refluenze negative, che viene a subire il micro-sistema.

E’ un problema che sorge ed è presente nel mondo produttivo internazionale, che viene affrontato nei vari ordinamenti giuridici con sistemi e rimedi diversi.

Non sembra dubitabile la necessità di affrontare ed adeguare le vecchie norme al sistema economico, finanziario e sociale, che velocemente si va evolvendo.

E’ un processo che, ancor più nell’ambito commerciale ed in particolare nella disciplina dell’impresa, storicamente si ripete: la realtà economica e sociale, ovviamente influenzata dal sistema politico, diventa necessariamente fonte ispiratrice del diritto.

Se così non fosse verrebbe a crearsi un conflitto tra le norme, che impongono determinati comportamenti e le necessità economico-sociali, che suggeriscono condotte diverse ed adeguate al sempre crescente dinamismo del fenomeno industriale e commerciale.

In buona sostanza “la regolamentazione giuridica non può dimenticare la realtà economica e sociale”[1], specialmente in un momento storico di costanti innovazioni.

Esempi di tale necessario adattamento si riscontrano nei Paesi di Common Law e principalmente negli Stati Uniti, dove nel lontano 1978 è stato riformato l’US Code, con l’introduzione del Titolo XI, sulla riorganizzazione delle imprese in crisi.

La normativa nord-americana (Chapter XI) è stata ritenuta la linea guida per la riforma, nei vari Paesi, della disciplina del fallimento e della crisi dell’impresa[2].

Essa mira alla continuazione dell’attività d’impresa, alla miglior soddisfazione possibile dei creditori ed al mantenimento dei posti di lavoro.

Protagonista è l’imprenditore in difficoltà, che propone ai creditori un piano di ristrutturazione (reorganisation), ove, in sintesi, vengono raffrontati i risultati dell’accordo proposto,  con quello raggiungibile con la liquidazione fallimentare (road map).

La reorganisation può esser proposta anche nel caso di già avviata procedura fallimentare e ciò entro 120 giorni dalla domanda (in genere del debitore), termine entro il quale è sospesa ogni azione dei creditori. 

La magistratura ha un ruolo limitato ed esterno, lasciando  in quanto l’amministrazione viene lasciata all’imprenditore, tranne che i creditori, scontenti della gestione diretta, non chiedano la nomina di un curatore.

Gli amministratori, cui viene attribuito il potere di risolvere contratti troppo onerosi (affitti, forniture, ecc.) e di eliminare rami di azienda improduttivi, unitamente alla domanda di ammissione alla procedura fallimentare, devono presentare una relazione (disclosure statement) ove vengono individuate le cause della crisi, gli strumenti per superarla e le modalità di  ripianamento dei debiti.

Spetta ai creditori (divisi in categorie – similar claims -) approvare, o meno, il piano.

Il procedimento di votazione del piano, che si svolge davanti al Tribunale, senza necessità della presenza dei creditori,  (che inviano le schede ricevute, con la manifestazione di voto),deve constatare, per l’approvazione della reorganisation”,  di una doppia maggioranza e cioè il 51% dei votanti, che rappresentino i 2/3 dei crediti votati. In questa fase il Giudice assume  un ruolo determinante, in quanto deve valutare,  con l’aiuto   di esperti, la fattibilità (feasibility) del piano, che deve essere idoneo a realizzare gl’interessi dei creditori (best interest of creditor’s test) e può approvarlo anche in presenza di voto negativo di una classe di creditori, che si ritengono pregiudicati. Ciò se il Giudice ritiene giusto ed equo il piano, secondo la ratio della procedura collettiva che mira a conseguire l’interesse di tutti e non di alcuni  creditori (classi), cui non è riconosciuto un diritto di veto[3].

La ratio della normativa in esame, il ruolo preponderante degli accordi tra le parti, la suddivisone dei creditori in classi, il ruolo essenziale degli esperti e quello marginale del Giudice, serve a meglio intendere sia l’operato di alcuni magistrati italiani illuminati, che hanno adattato la rigida normativa alle nuove esigenze, sia, ancor più, lo spirito ed i contenuti della riforma, attuata in parte con il D.L. 14 marzo 2005 n. 35, convertito con modificazioni nella L. 14 maggio 2005 n. 80 e quindi in modo completo con la L. 9 gennaio 2006 n. 8, entrata in vigore il 16 luglio 2006.

Va, comunque, tenuto in conto che la considerata normativa, pur se di valenza generale nelle linee principali, non può esser calata per intero nel nostro ordinamento, senza gli adattamenti e le spigolature, che la rendano compatibile con il nostro complesso corpus iuris.

2. La crisi dell’impresa - prevenzione e risanamento

In ogni possibile accadimento negativo la prevenzione è il presupposto per evitare la ricerca e l’applicazione di necessari rimedi postumi.

Il mercato globale, caratterizzato da estrema competitività e variabilità degli elementi esterni, pone l’impresa nella necessità di una costante e capace vigilanza  non soltanto sul mantenimento del ritmo di crescita programmato, ma su tutti gli elementi interni ed esterni, che si presentano come difficoltà da superare, sia che riguardino l’intera azienda, che alcuno dei suoi settori.

La capacità gestionale consiste quindi nell’accorgersi tempestivamente delle disfunzioni e nell’intervenire efficacemente per eliminarle, individuando il nesso causale tra le cause da cui derivano e gli effetti di perturbamento, che producono[4].

Può affermarsi che il costante adeguamento della gestione aziendale alla variabilità dell’ambiente esterno e l’attività volta all’eliminazione di inevitabili errori di programmazione e di attuazione, che s’intersecano con i cambiamenti, rappresentano degli elementi propulsivi dell’azienda[5].

Il difetto dell’attività di prevenzione è imputabile ad inadeguatezza della formula imprenditoriale ed incapacità, o negligenza gestionale, che non può che determinare l’aggravarsi delle negatività e quindi lo stato di crisi, che si manifesta inizialmente come “incipiente” e successivamente “grave e diffusa”. Nel primo caso le disfunzioni hanno già interessato varie aree gestionali, ripercuotendosi sui risultati economico-finanziari, senza però generare ancora perdite ingenti e consolidate, che possano compromettere  l’equilibrio aziendale.

Quel che più conta è che, in tale forma di crisi, non viene intaccato l’elemento fiducia (all’interno con la gestione all’esterno con  banche e fornitori) e può esser sufficiente una soluzione nell’ambito della gestione ordinaria.

Occorrerà, comunque, individuare i fattori di perturbamento eliminandone cause ed effetti[6] e procedere ad una rivisitazione della formula imprenditoriale, per una sua maggiore razionalizzazione, ed ad un “riorientamento strategico” della gestione[7].

Non così semplice è il superamento della crisi “grave e diffusa” al fine di pervenire al risanamento ed al recupero dell’impresa, che presuppone, oltre all’esistenza di capacità professionali, la  possibilità di reperire nuove risorse finanziarie, indispensabili al risanamento.

La crisi “grave e diffusa” coinvolge l’azienda nel suo complesso e conseguentemente l’individuazione delle cause e dei rimedi per eliminarle assume maggiore complessità ed incertezza.

L’impegnativa e delicata  analisi non può logicamente affidarsi agli stessi organi amministrativi che, per incapacità o negligenza, non sono stati in grado di risolvere tempestivamente la crisi al suo sorgere e quindi ne hanno determinato la gravità. Ciò a prescindere dal venir meno dell’elemento fiducia, che, in ogni caso, inficerebbe ogni resipiscenza e qualsiasi soluzione, pur se razionale, suggerita dai vecchi amministratori.

 A prescindere quindi dalla opportuna sostituzione della gestione, lo studio delle possibili soluzioni di risanamento va affidata ad un esperto.

Qualora la complessa analisi arrivi a conclusioni positive, per il salvataggio dell’impresa in crisi le modalità d’intervento, che comunque presuppongono la reperibilità di nuove finanze, sono individuate:

a) nella ristrutturazione (modifica del rapporto prodotti/mercato); nella riconversione (innovazione di tecnologia e di marketing, ricerca di nuovi mercati e modifica della produzione); nel ridimensionamento (modifica riduttiva delle dimensioni e della produzione dell’azienda) e nella riorganizzazione dei settori operativi e della gestione, in ogni caso     necessaria[8].

Lo   stato  di   crisi   grave   e   diffusa   dell’impresa    determina una incapacità di assolvere regolarmente le obbligazioni assunte e quindi coincide con lo stato di insolvenza che, ai sensi dell’art. 5 della legge fallimentare, determina la fallibilità.

Quel che è grave è che la formulazione di un piano di ristrutturazione (ove possibile) necessita di tempi non brevi, che non consentono di arginare la dichiarazione di fallimento, che  può esser determinata anche da una sola istanza presentata da un piccolo creditore.

In buona sostanza, in casi similari abbastanza frequenti, viene inevitabilmente ad aprirsi una procedura fallimentare, che si sarebbe potuto evitare in presenza di una diversa normativa, più consone alle sempre maggiori esigenze di salvaguardia dell’economia e dell’occupazione[9].

 Nell’attesa dell’emanazione della nuova normativa, si era ipotizzato come sufficiente, mutuando in parte la considerata disciplina americana, prevedere per l’imprenditore un termine di 120 giorni da una specifica  sua domanda (prefallimentare) entro il quale, da un canto venissero sospese le azioni esecutive e tanto più le istanze di fallimento, dall’altro l’imprenditore potesse scegliere la soluzione giuridica da seguire (accordo di ristrutturazione dei debiti, concordato stragiudiziale, concordato preventivo o fallimento).

Tale soluzione “guidata” avrebbe consentito di salvare, ove possibile, ed eliminando ogni rigida preclusione, realtà finanziarie ancora meritevoli, che, come ormai riconosciuto[10] hanno funzione di utilità sociale.

All’insegna di una preventiva e ponderata valutazione dei presupposti per la dichiarazione di fallimento la nuova normativa all’art. 15, ha disposto una fase prefallimentare, caratterizzata da una istruttoria, nel contraddittorio delle parti, con l’articolazione di mezzi istruttori, tra i quali la possibile nomina di consulenti tecnici (nominati dalle parti), che si svolge nella cognizione del tribunale (o del giudice ad hoc delegato) il quale ad  istanza di parte, può “emettere i provvedimenti cautelari  o conservativi   a tutela dell’impresa oggetto del fallimento”.

Ci si chiede (con risposta riteniamo positiva, dovendo viceversa rilevarsi l’incongruità della previsione cautelare e/o conservativa) se il Tribunale possa disporre la sospensione delle azioni esecutive, espressamente prevista con la dichiarazione di fallimento (art. 51).

3. La legge fallimentare del 1942 – rigidità del sistema ed effetti negativi

La disciplina  del fallimento e delle altre procedure concorsuali, dettata dal R.D. 16 marzo 1942 n°267, è stata improntata a principi rigidi, che, pur dando una sufficiente certezza d’interpretazione e di applicazione  ha determinato guasti all’economia, sempre più evidenti e considerevoli con il crescere dello sviluppo economico nazionale ed internazionale (globalizzazione) e con la formazione delle grosse concentrazioni di capitale d’investimento.

I cardini del sistema, solo da recente innovato, si fondano sul concetto di insolvenza (art. 5) supportato dal coevo art. 2221 c.c., e su quello, moralmente ineccepibile della par conditio creditorum (art. 2741 c.c.).

Il principio dell’insolvenza è stato scolpito in modo lapidario dal precedente legislatore, determinando, per il Giudice, il potere-dovere di rimuovere il dissesto la dichiarazione di fallimento

L’insolvenza deve manifestarsi esteriormente come incapacità dell’imprenditore a “soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

L’incapacità, rilevante per la configurabilità dell’insolvenza, deve essere oggettiva ed irriversibile, non rileva l’entità degl’inadempimenti, né che le obbligazioni siano estranee all’attività d’impresa. Viene altresì ritenuto insolvente l’imprenditore che adempie ricorrendo a mezzi rovinosi, o fraudolenti (con pregiudizio della par conditio). Non esclude lo stato di insolvenza il verificarsi di un solo inadempimento, né l’esistenza di un patrimonio superiore al passivo, elemento questo preso in positiva considerazione da altri ordinamenti (Uberschuldung dei § 207-208-213 Konkursordnung tedesca; § 69 Konkursordnung austriaca).

Per dichiarare il fallimento il Tribunale deve accertare il manifestarsi dello stato di insolvenza anche sulla base di presunzioni (elementi gravi, precisi e concordanti), che hanno valore di prova (art. 2729 c.c.).

Sotto il profilo, considerato al superiore punto 2, l’insolvenza rappresenta lo stato irreversibile della crisi grave e diffusa, che impone la liquidazione dell’azienda, non più produttivamente recuperabile.

Il concetto di insolvenza, quale presupposto oggettivo del fallimento, è stato oggetto d’interpretazione da parte della giurisprudenza, che talvolta ha applicato un criterio eccessivamente rigido ed altre volte superficiale e massimalistico, successivamente corretto dal Giudice di legittimità[11].

Elemento che ha aggravato l’inadeguatezza dell’impianto liquidatorio della normativa sul fallimento, vigente fino al 15 luglio 2006, è quello della complessità della procedura e dei tempi di liquidazione e di chiusura, nonché nella sottovalutazione della fase prefallimentare[12].

Sotto quest’ultimo profilo la nuova legge, interpretando ed assolvendo ad una necessità di salvaguardia, ove possibile, del capitale dell’azienda in crisi, ha dettato un apposito articolo (art. 15), che dispone un’attenta istruttoria prefallimentare “volta all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento”. Ivi è previsto il deposito di una situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore, l’esperimento di eventuali mezzi istruttori, anche disposti d’ufficio e la possibile nomina dei consulenti tecnici (in precedenza venivano concessi rinvii solo a fronte di parziali pagamenti).

In passato l’esigenza di ponderare gli elementi della crisi anche per consentire alle parti di adottare soluzioni di salvataggio almeno di parte del patrimonio dell’impresa è stata assolutamente trascurata.

Soltanto ultimamente, da parte di Giudici illuminati, sono stati forzati, con un’interpretazione evolutiva in aderenza alle nuove maggiori esigenze, i ristretti ambiti della c.d. fase prefallimentare, per consentire soluzioni alternative e meno traumatriche del fallimento[13].

 La riforma della normativa del fallimento, pur se generalmente ritenuta ormai da tutti necessaria, ha suscitato reazioni negative da parte della dottrina e, principalmente della giurisprudenza, ciò prendendo spunto dall’inserimento di alcune (anche se determinanti) norme sul vecchio impianto.

Ci riferiamo a quanto verificatosi dopo la  c.d. mini-riforma, attuata con il D.L. 14 marzo 2005 n. 35, convertito in legge, con modificazioni dell’art.1, comma 1 L. 14 maggio 2005 n. 80.

Nella cennata circostanza si è verificata una reazione conservatrice della ratio ispiratrice del legislatore del 1942, basata su  una concezione accentratrice dei poteri dello stato e dei suoi organi (nella specie dell’amministrazione della Giustizia), oggi in pieno contrasto con i principi di uno stato liberale, ove la funzione dello stato è ritenuta di guida e non di ingerenza nell’economia[14]  e nei rapporti tra privati, diritti che la nostra Costituzione (art. 41) ritiene comprimibili solo qualora risultino in contrasto con l’utilità sociale[15].

Per quanto riguarda la reazione dei Giudici ai contenuti della mini-riforma è stato ravvisato un loro risentimento per l’introdotta privatizzazione ed accelerazione delle procedure concorsuali, nonché la  “ricerca di uno spazio valutativo non assegnato dalla legge[16].

La dottrina non ha mancato di avanzare dubbi di applicabilità, ipotesi di conflitto con la vecchia normativa e critiche, spesso preconcette, che peraltro non sembra abbiano tenuto nel dovuto conto, nel caso della mini-riforma, del principio dell’abrogazione tacita.

Infatti, quando si verifica un conflitto tra norme, quella nuova prevale sulle precedenti specialmente, nel caso verificatosi con l’entrata  in vigore dell’art. 2, comma 1 e 2 del D.L. 14 marzo 2005 n. 35, ove le norme (anche se parzialmente) introdotte erano fondate sulla ratio innovatrice della privatizzazione dell’istituto, ratio supportata dalla L. 14 maggio 2005 n. 80, ove è contenuta la delega al Governo di attuare “la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali”, fissandone i principi base.

Con tale legge il Governo è stato delegato ad emanare entro 180 giorni dall’entrata in vigore della predetta L. 80/2005 (15 maggio 2005), “con l’osservanza dei principi e dei criteri direttivi di cui al comma 6, la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali".

La riforma è stata attuata in due tempi[17].

In questa sede non possiamo che limitarci a considerare la sostanziale novità della ratio, che ha radicalmente innovato, con una inversione di fronte, la disciplina previgente.

La si ritiene una riforma organica e coerente, pur se perfettible, che ha spostato i punti cardinali del sistema da un canto verso il reale interesse dell’economia e dei creditori[18] (c.d. privatizzazione), dall’altro determinando celerità al meccanismo giudiziario attraverso l’adozione del rito camerale, cui peraltro sono assegnati termini brevi, ed ancora attribuendo maggiori (e dovuti) poteri al comitato dei creditori, ed al curatore stesso, cui è affidata la gestione della procedura (art. 31) sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, e non più sotto la direzione del giudice delegato, cui rimane il potere autorizzativo sugli atti di straordinaria amministrazione (art. 35 L.F.).

In buona sostanza viene deflazionata la giurisdizione, ed incentivate le procedure, volte alla conservazione del valore residuo dell’impresa (od alla maggior convenienza per i creditori di una liquidazione guidata in sostituzione della più lunga e costosa liquidazione fallimentare) (art. 160 ss. e 182 bis L. F.).

Cardine del nuovo sistema è la figura dell’esperto e le relazioni allo stesso demandate, che assurgono, pur nella salvezza di eventuali fondate opposizioni, valenza di veridicità e valore probatorio di elementi essenziali posti a base di richieste e di provvedimenti giudiziari[19].

Ulteriore novità, che snellisce il sistema, è rappresentata dall’aver dimezzato i tempi dell’azione revocatoria fallimentare (art. 67), mentre le previste esenzioni (art. 67, comma 3) trovano motivazione (lett. a e b) nell’interesse alla prosecuzione dell’attività d’impresa (diversamente al presentarsi anche di una minima, reversibile crisi s’interromperebbe il flusso economico vitale), nella salvaguardia di chi acquista (al giusto prezzo) l’abitazione principale, dei piani di ristrutturazione (lett. c. e d), e degli atti compiuti in esecuzione del concordato preventivo e dell’accordo omologato ai sensi dell’art. 182 bis, nonché dei pagamenti di prestazioni strumentali “all’accesso alle procedure concorsuali” (lett. e e g) ed infine (lett. f) a garanzia dei corrispettivi per prestazioni di lavoro dei dipendenti e dei collaboratori del fallito.

Abbiamo considerato gli aspetti negativi e talvolta abberranti della vecchia normativa fallimentare principalmente ricadenti sui lunghi ed a volte interminabili tempi di definizione e sull’incidenza negativa per i creditori di una liquidazione fallimentare in vece di quella ordinaria e ciò quale iniquo sacrificio sull’altare del rigido principio dell’insolvenza.

Non si ritiene superfluo, in proposito, evidenziare alcuni “casi emblematici”[20].

Adesso la tanto criticata riforma è legge dello Stato ed ogni rilievo va rivolto al suo miglioramento.

Certamente non si può tornare indietro, dove come abbiamo considerato troviamo ombre ed ostacoli alla salvaguardia delle nuove pressanti esigenze, che hanno indotto altri Stati europei (Spagna, Francia e Germania) ad allinearsi alla regolamentazione nord-americana.

Il progresso non può arrestarsi ed il diritto, abbandonando principi non più consoni, deve porre nuove regole alla cambiata coscienza sociale e politica, che da tempo si manifesta pressante.

La privatizzazione della disciplina delle procedure concorsuali elimina in radice gli effetti negativi dell’abrogata normativa e si ritiene che, comunque, abbia raggiunto obiettivi ormai irrinunciabili, quali: minor lavoro per i Giudici, con l’utile effetto di dedicarsi ad altri procedimenti, abbreviandone i tempi di definizione; accelerazione dei tempi della procedura, con l’adozione del rito camerale; notevole economia per l’Amministrazione Giudiziaria e quindi per il bilancio dello Stato[21]; maggior convenienza, o minor danno, per i creditori.

4. Il concordato stragiudiziale

Il termine “concordato stragiudiziale” è utilizzato per indicare gli accordi intercorsi tra imprenditore e creditori al fine di evitare il fallimento, termine che, pur se mutuato dalla normativa fallimentare (concordato preventivo e fallimentare) non trova riscontro nella legge e comunque, non può ricomprendersi in una disciplina unitaria[22].

Invero i contratti stipulati hanno natura eterogenea, pur se collegati da interdipendenza[23].

Alla base dell’accordo con ciascun creditore è, ovviamente, la convenienza soggettiva del risultato extragiudiziale rispetto a quello ottenibile dalla liquidazione fallimentare, accordo che pertanto assume natura giuridica diversa, come transazione, novazione, remissione parziale del debito, cessione di azienda o di parte di essa, di crediti, ecc.

La maggior convenienza e speditezza nel risolvere la crisi dell’impresa al di fuori delle procedure concorsuali ha determinato, come detto, soluzioni stragiudiziali, attraverso le quali, anche superando il dogma della par conditio, regolare in vario modo le posizioni, garantendo nei limiti del possibile la prosecuzione dell’attività aziendale[24].

Particolare attenzione viene attribuita alla posizione del ceto bancario, che normalmente, anche per l’ordinaria sottocapitalizzazione delle imprese, è tra i creditori il maggiormente esposto e, conseguentemente, determinante per l’accettazione della proposta, avanzata dal debitore attraverso il piano, o programma di ristrutturazione[25].

Il ruolo centrale dei creditori finanziari è determinato non soltanto dall’entità dei crediti ma anche dalla necessità di sostenere l’impresa in crisi con l’assistenza finanziaria (nuova finanza generalmente concessa da un pool di banche)[26].

Nell’accordo stragiudiziale, che prevede il recupero del valore dell’azienda attraverso la sua ristrutturazione, ovvero la sua liquidazione, nei tempi e con le modalità stabilite (allorché è stimata più conveniente della liquidazione fallimentare) è fondamentale il programma, predisposto dall’imprenditore, che, dopo aver analizzato le cause della crisi, indichi i rimedi da applicare per la prosecuzione dell’attività aziendale, i risultati ed i tempi per pervenire al risanamento dei debiti[27].

È evidente che la valutazione cambia oggetto, ovverosia non è più la considerazione delle garanzie patrimoniali tradizionali, bensì la capacità di ripresa produttiva e/o il miglior (rispetto al fallimento) risultato di una liquidazione guidata[28].

Il nodo cruciale, è rappresentato dalla categoria dei fornitori e dai creditori vari (professionisti, ecc.) che, pur rappresentando in genere una massa creditoria di minor consistenza rispetto alle banche, è caratterizzata dalla disomogeneità e dal numero elevato dei componenti (oltrecchè spesso di inadeguata cultura aziendale). Ciò ha determinato che una minoranza, o solo un creditore abbia reso impercorribile il programma[29].

L’unico rimedio, ormai costantemente attuato, è l’inosservanza del dogma della par conditio, giungendo a prevedere l’integrale pagamento per alcune categorie, o per alcuni creditori[30].

Malgrado le ottimistiche statistiche[31] sembra che la percorribilità del concordato stragiudiziale possa limitarsi non soltanto ai casi di preminente posizione creditoria delle banche, e di superamento della par conditio, ma principalmente allorchè sussistano nuove disponibilità finanziarie, necessarie, quantomeno, a soddisfare integralmente i creditori minori.

Non trascurabile effetto, che si verifica all’interno della compagine sociale durante il periodo della ristrutturazione, è quello della flessione dell’interesse sociale, come interesse dei soci, per concentrarsi in quello dei creditori, divenendo questo ultimo un “interesse sociale” alternativo[32].

La formulazione di un accorto ed articolato programma e la sua approvazione da parte dei creditori (con sacrifici cui partecipa la proprietà con i possibili interventi finanziari), non è di per sé sufficiente in quanto presuppone il superamento, da parte degli amministratori proponenti, dei rischi di coinvolgimento personale di natura penale, per aver ritardato il fallimento (art. 217 L.F.) e da parte dei creditori del rischio di una possibile revocatoria, conseguente ad una non scongiurata dichiarazione di fallimento (che potrebbe, oltretutto, colpire la nuova finanza)[33].

La tardività con la quale normalmente viene affrontata la crisi, cui non sembra estranea una carenza di sufficiente analisi da parte delle banche affidanti, ha inciso sulla compiutezza del “programma”, che certamente rappresenta  un punto chiave del meccanismo, anche in ordine alla esclusione delle responsabilità personali dei proponenti (art. 217 L.F.)[34].

Sotto ogni profilo è stata, quindi, manifestata l’esigenza di una riforma normativa del fallimento e delle procedure concorsuali che, abbandonando la tentazione di una presunta tutela dei dipendenti e la “vocazione pubblicistico-amministrativa”,[35] segua le esigenze pressanti del sempre più rapido e complesso evolversi del sistema economico[36].

Si sono già evidenziati i rischi (e quindi le remore per la sua proposizione), che il concordato stragiudiziale in passato ha determinato sia per il proponente (che nel caso di insuccesso e successivo fallimento poteva rispondere del reato di bancarotta semplice (art. 217, n. 4, L.F.), per aver ritardato il fallimento aggravando in tal modo il dissesto), sia per i creditori (che in forza dell’accordo avevano ricevuto pagamenti entro l’anno dalla dichiarazione di fallimento, e quindi, revocabili (art. 67, comma 2, R.D. 16 marzo 1942 n. 267), sia per debitore e creditori, che potevano essere imputati di bancarotta preferenziale (art. 216, comma 3 L.F.), per aver il debitore eseguito pagamenti, allo scopo di favorire alcuni soltanto dei creditori, a ciò conniventi[37].

Il reato in parola presuppone il dolo specifico del debitore, consistente appunto nel favorire alcuni creditori pur consapevole dell’eventualità di arrecare pregiudizio alla massa, elemento che, nel caso di concordato stragiudiziale, cui normalmente non aderiscono tutti i creditori, è in re ipsa (in quanto sussiste la consapevolezza di arrecare pregiudizio ai non aderenti a meno che non si riesca a provare che si aveva l’intenzione e la disponibilità di pagare integralmente i creditori dissenzienti)[38].

° ° °

La riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, attuata dal D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, entrata in vigore il 16 luglio 2006, non ha direttamente disciplinato il concordato stragiudiziale, occupandosi comunque di introdurre, in seno alla disciplina dell’innovato concordato preventivo (artt. 160 ss. L.F.), gli “accordi di ristrutturazione dei   debiti”,[39] espressione ulteriore della c.d. “privatizzazione” dell’istituto ( art. 182 bis L.F.).

Tuttavia, indirettamente, e non a caso, il nuovo legislatore ha eliminato i già considerati elementi ostativi (revocatoria e ipotizzabilità dei reati ex art. 217, comma 1 n. 4  e 216, comma 3 L.F.) alla percorribilità del concordato stragiudiziale.

°°°

La soluzione indiretta ruota sulla figura dell’esperto, al quale la nuova disciplina fa riferimento all’art. 67 comma 3 (esenzione della revocatoria) all’art. 161 (domanda di concordato preventivo), all’art. 182 bis (accordi di ristrutturazione), affidandogli il delicato ed impegnativo compito di valutare la situazione finanziaria dell’impresa e prospettare un percorribile programma di risanamento, con una relazione che, se positiva, determina gli effetti previsti nelle richiamate norme, ovverosia l’esenzione dalla revocatoria, l’ammissibilità del concordato preventivo e l’omologabilità dell’accordo di ristrutturazione dei debiti.

Vanno subito chiarite da un canto quali siano le qualità professionali dell’esperto, richieste dalla legge, dall’altro la sua funzione certificativa e gli effetti della stessa.

Invero la nuova legge utilizza vari termini e requisiti per definire la figura dell’esperto:

a) Così all’art. 67, comma 3, lett. d, stabilisce l’esenzione dalla revocatoria allorchè gli atti di disposizione siano “posti in essere in esecuzione di un piano, che appaia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art. 2501 bis, quarto comma del codice civile” (fusione con indebitamento).

Tale rinvio chiarisce requisiti e funzioni dell’esperto  e le responsabilità per danni causati dalla sua relazione.

Infatti l’art. 2501 sexies dispone che gli esperti devono essere scelti tra i revisori contabili e le società di revisione (art. 409 bis, comma 1 c.c.) e che la relazione degli esperti “attesta la ragionevolezza delle indicazioni” e quindi del programma (art. 2501 bis, comma 4 c.c.). Peraltro agli artt. 2501 bis, comma 2 e 3 e 2501 sexies, ult. comma, sono indicati i contenuti, che deve avere la relazione.

Per quanto riguarda le responsabilità degli esperti viene fatto espresso rinvio all’art. 64 c.p.c. (art. 2501 sexies, comma 6 c.c.).

b) Il ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo deve essere accompagnato “dalla relazione di un professionista di cui all’art. 28, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano” (art. 61, comma 2 L.F.).

A sua volta l’art. 28 L.F. indica i requisiti per la nomina a curatore e, quindi in forza dell’espresso rinvio, quelli richiesti per la scelta dell’esperto.

c) Infine l’ art. 182 bis L.F. prevede che l’accordo di ristrutturazione sia correlato da “una relazione redatta da un esperto sull’ attuabilità dell’accordo…”.

In buona sostanza nel caso sub a), in virtù del rinvio alle norme sulla fusione, il legislatore ha previsto un esperto, con particolari caratteristiche, nel caso sub B) un “professionista “ in possesso dei requisiti per la nomina a curatore e nel caso sub c) ha fatto riferimento ad un esperto, senza altra indicazione.

Tale differenziazione è stata oggetto di aspre critiche[40] di parte della dottrina e qualificata come “irragionevole” e “frutto di una scritturazione a più mani non coordinata”[41].

Riteniamo che la ratio che ha ispirato il legislatore sia stata quella di esigere dai consulenti una professionalità diversa e mirata alla maggiore, o minore rilevanza della funzione demandata alla relazione, con riferimento alle norme, ove è prevista[42].

Così sembra evidente che, nell’ ombrello escludente della revocatoria fallimentare, che direttamente riguarda il concordato stragiudiziale e la sua agevolata percorribilità ( art. 67, comma 3, lett. D) l’idoneità del “programma “ e la sua ragionevolezza deve poter resistere alla valutazione del Giudice, nel caso di proposizione dell’azione revocatoria. Da ciò la necessità di un’autorevole e competente compilazione del piano, che scoraggi tentativi strumentali.

Per quanto riguarda la relazione richiesta per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo sembra equo ed equilibrato il rinvio all’art. 28 L.F., che pone in tal modo una maggiore garanzia per i creditori dissenzienti egualmente soggetti (con l’omologazione) a subire la falcidia ed i tempi del concordato ( in quanto la soluzione prospettata nella relazione, ragionevolmente, è rappresentata la maggir convenienza della soluzione concordataria “ rispetto alle alternative concretamente praticabili” ( art. 180 comma 3 L.F. ). Ciò a prescindere dalle garanzie, stabilite dal sistema con le impugnative, sia con il contraddittorio in seno al giudizio di omologazione( art. 180 L.F. ),  sia con la possibilità di appello ( art. 183 L.F.).

Il nuovo concordato stragiudiziale viene quindi a configurarsi come un’ulteriore forma di ristrutturazione[43] introdotta nel regime di risanamento dell’impresa, che consente a debitori e creditori di pervenire ad un accordo stragiudiziale, eliminando gli elementi di rischio, che ne avevano limitato la percorribilità.

Tale risultato è divenuto raggiungibile, ripetiamo, con l’introduzione della figura dell’esperto e della portata asseveratrice della sua relazione (art. 67, comma 3 lett. D L.F.) che non soltanto rende ipotetica l’impugnativa dell’azione revocatoria, ma copre il proponente dai rischi d’ imputazione di bancarotta semplice ( art. 217 L.F.) e preferenziale ( art. 216 comma 3)[44].

Sono a nostro avviso non condivisibili i rilievi, e le preoccupazioni di favorire condotte abusive, mossi da molti autori.

Rileviamo innanzitutto che è previsto che il piano di risanamento abbia caratteri di analiticità e completezza[45] e che ragionevolmente profili  sia “il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa”, sia “il riequilibrio della sua situazione finanziaria”, e quindi la continuazione dell’attività. Il richiesto contenuto oggettivo e quindi elemento essenziale per l’esenzione.

Da ciò consegue che, ove successivamente venisse dichiarato il fallimento ed il curatore esercitasse l’azione revocatoria, il difetto anche parziale dei suddetti presupposti determinerebbe l’inapplicabilità dell’art. 67 lett. D e quindi la revoca di tutti gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse dall’imprenditore in esecuzione del piano[46].

Non è quindi ipotizzabile, come da alcuni sostenuto,[47] che la fattispecie di esenzione in argomento possa “favorire condotte abusive”, proprio in quanto destinate successivamente a ritorcersi contro l’imprenditore, anche sotto il profilo penale ( art. 217 e 216 L.F.).

Né sembra possa incidere negativamente sulla positività della fattispecie il fatto che l’esperto non sia stato nominato dal Giudice, ma dall’imprenditore in difficoltà,[48] in quanto è di tutta evidenza e rilevanza la sorveglianza dei creditori sulla veridicità ed efficacia delle componenti del piano (a volte i creditori stessi impongono la scelta dell’esperto).

Tali componenti assicurano l’attendibilità della relazione, che, in ogni caso, è suscettibile della valutazione del Giudice, nell’eventuale azione revocatoria, intrapresa dal Curatore.

E’ stata altresì ipotizzata una debolezza, o lacuna, nella previsione del piano, che determinerebbe il difetto di tutela dei creditori minori. In particolare  è stato sostenuto che “ saranno le banche a pretendere (o a redigere e a far adottare) un piano che comprenda tutte le operazioni di finanziamento e le connesse garanzie in modo da tutelarsi in caso di esito infausto del tentativo[49]. A prescindere dal fatto che il piano deve contenere l’aggiornata situazione patrimoniale dell’impresa (art. 2501 quarte c.c.) e quindi deve esser ipotizzato il risanamento anche dei debiti minori (elemento questo che fa parte della ragionevolezza, chiesta dalla norma esimente), sembra evidente che anche le banche, per scongiurare “ l’esito infausto del tentativo”, siano indotte a tutelare anche i crediti minori, per evitare che questi prendano l’iniziativa per una dichiarazione di fallimento, che non conviene a nessuno.

I poteri certificativi dell’esperto vengono bilanciati dalle gravi responsabilità poste a suo carico. A prescindere dalla responsabilità civile (art. 2043 c.c.), già considerata, art. 2501 bis, comma 4, determina, per espresso richiamo dello stesso l’applicabilità dell’art. 2501 sexies, che al comma 6 dichiara applicabili reati a carico dei consulenti, di cui all’art. 64 c.p.c. e cioè quelli previsti dagli art. 733 ss. c.p.[50].

Una verifica sull’adeguatezza e verità del piano viene comunque effettuata dai creditori, con l’attenzione e professionalità che merita la tutela dei loro interessi[51].

***

La nuova normativa ha quindi introdotto tre diversi strumenti di gestione e superamento della crisi aziendale, che, pur aventi identico presupposto oggettivo (superamento della crisi, in esso compreso lo stato di insolvenza ) si distinguono per il contenuto più o meno ampio[52].



[1] Per una visione storica del fenomeno vedi G. Ferrara in Enciclopedia del diritto,  voce Diritto Commerciale, Milano – Giuffrè.

[2] N. Segal, An Overview of Recent Developments and Future Prospect in the United Kingdom, in J. S. Zieged, Current Developments in International and Comparative Insolvency Law, New York, 1994; G. Rossi, Crisi delle Imprese: la soluzione stragiudiziale, in Riv. Società, 1996, 321 ss.

[3] Charles G. Case “Crisi dell’impresa e risanamento: la soluzione americana”, relazione al Convegno dell’Associazione Nazionale Commercialisti, Roma 2 febbraio 2005.

[4] C. Vergara – I processi di risanamento e di prevenzione delle crisi aziendali, in …………….

[5] Gli elementi propulsivi dell’azienda rappresentano nel contempo fattori fondamentali della prevenzione della crisi. Essi vengono sintetizzati nei principi   della “tensione alla qualità” e della “creatività diffusa”.

Del primo concetto fa parte la riduzione dei costi, che determina il miglioramento della competitività (senza flessione della qualità), il miglioramento dei mezzi di produzione, il costante confronto fra le aree di “Ricerca e sviluppo”, “Produzione”, “Marketing” e “Controllo di gestione”, lo sviluppo delle risorse umane e della fiducia reciproca (C.Vergara, op. cit., p. 195; M. Modica: “Il controllo e la valutazione del cambiamento organizzativo”, Giuffrè, Milano 1984, p. 100 e ss.).

Per creatività s’intende la capacità dell’impresa di produrre ricchezza, rinnovando se stessa, creando nuove risorse ed un aumento di ricchezza (output).

[6] A. Riparbelli, “Il contributo della ragioneria nell’analisi dei dissesti aziendali”, Vallecchi, Firenze 1950, p. 200 ss.

[7] V. Coda, “La valutazione delle formula imprenditoriale”, in Sviluppo e Organizzazione n. 82, marzo-aprile 1984; C. Vergara, op. cit., p. 185/87.

[8] La misura dei mezzi finanziari necessari per sopperire alle esigenze di ricostituzione del capitale di un’impresa da risanare, scrive Coda V., Ruolo della proprietà nei risanamenti d’imprese, in op. cit., pag. 687, sono definite: “1) dall’ammontare dell’eventuale deficit patrimoniale accumulato dalle passate gestioni (pari alle perdite di esercizio non ripianate meno il capitale sociale e le riserve, palesi o nascoste); 2) dalle perdite che dovranno ancora sostenersi prima di raggiungere il punto di pareggio; 3) dall’ammontare minimo del capitale sociale stabilito dalla legge; 4) dall’ammontare minimo della dotazione di mezzi propri che i terzi finanziatori (banche, fornitori) giudicano necessario per concedere all’impresa il credito e la fiducia di cui ha bisogno; 5) dall’eventuale esigenza di abbassare la soglia di difficoltà del risanamento fino al livello delle capacità del management.

[9] C. Vergara, op. cit., p. 180 ss.; L. Quatri, Crisi e risanamento delle imprese, p. 53, 54 Giuffrè, Milano 1986.

[10] De Woot P., Imprenditorialità e creatività: ruoli tradizionali e ruoli nuovi dell’Impresa, in Strategia sociale dell’Impresa a cura di R. Pastore e G. Piantoni; G. Etas Libri; C. Vergara, op. cit., p. 197.

[11] App. Brescia, 18 novembre 2003, in Fallimento 2004, 221, ha affermato “che l’esiguità del credito inadempiuto non esclude lo stato di insolvenza del debitore”. In proposito è da ritenersi superata, sia sul piano sostanziale che processuale, l’equivalenza tra inadempimento e stato d’insolvenza, e nella specie, non sembra possa avere valenza presuntiva un solo, esiguo inadempimento, per la cui soluzione sarebbe stata più idonea (e meno dispendiosa) l’esecuzione individuale. Non è superfluo considerare come troppo spesso le istanze di fallimento vengano presentate a scopo costrittivo e punitivo e che la procedura fallimentare non sempre trova giustificazione per via dei notevoli costi giudiziari e dei tempi lunghi di realizzo. Nel caso considerato è probabile che sussistessero ancora rimedi diversi e più conducenti della liquidazione fallimentare. Giova evidenziare in merito che la nuova Legge fallimentare, oltre a quanto innovativamente previsto per il concordato preventivo (artt. 160-182) e per gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis), ha espressamente disposto (art. 15 ult. Comma) che “non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultante dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore ad € 25.000,00. E’ finalmente prevalso il buon senso e la giusta cointemperazione degl’interessi privati (creditori) e pubblici (amministratori della Giustizia ed Erario), ciò a prescindere dall’effettivo interesse dei creditori in quanto, se esistenti, i beni del debitore possono soddisfare l’esiguo credito più agevolmente e brevemente con l’azione esecutiva individuale. Vengono così eliminati le azioni strumentali e vendicative e quel che è più evidente si attua un proporzionato impegno dei magistrati e l’eliminazione di non utili costi a carico dell’Erario.

[12] Trib. Bologna 9 aprile 2004, in Falimento 2004, 1287, che ha affermato “che l’istanza per la dichiarazione di fallimento và rigettata, qualora non vi sia prova della impossibilità di attuare una procedura di liquidazione volontaria” quasi un’inversione dell’onere della prova).

[13] Ci si riferisce al caso della Serafino Ferruzzi s.r.l., ove il Tribunale, in presenza di trattative in corso, ha diluito la fase prefallimentare per far maturare gli accordi, che sono stati raggiunti. Di grosso rilievo è che il Tribunale non ha sindacato né il merito del concordato stragiudiziale, che pur violava la par conditio dallo stesso giudicante ritenuta “ principio generale derogabile dall’accordo delle parti”. Seminario di studi sulle procedure concorsuali. Genova 15-16 marzo 1996.

[14] Trattasi del periodo in cui è stata creata l’industria di Stato con l’istituzione dell’apposito Ministero delle Partecipazioni Statali, e la costituzione di IRI, ENI, ed EFIM ecc. enti pubblici economici, con fine di lucro e disciplina privatistica. 

[15] Il principio della libera iniziativa economica è un principio cardine della nostra Costituzione, pur se condizionato dalla non contrarietà all’utilità sociale. In proposito una recente sentenza del Consiglio di stato (C. St. 1 luglio 2002 n.° 1354 in Foro Amm. CDS 2002, 2607) ha riaffermatoli principio della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento pubblico ( nella specie nel settore delle fondazioni bancarie), raffrontando i benefici con i costi economici-sociali, ed osservato che “ possibili limitazioni agli spazi di autonomia privata operate in nome di interesse pubblico” non trovano giustificazione allorché le stesse finalità possono “ essere perseguite all’interno del medesimo regime privatistico”. Ravvisiamo in tale massima un sostegno alla legittimità dell’attuata privatizzazione del fallimento.

[16] G. Fanciglia, in  Dir. Fall. 2006, Vol LXXX, p. 153 ss.

[17] ) L. 14 maggio 2005 n. 8 e D. Lgs. 9 gennaio 2006 n. 5.

[18] Il Ferrara ne “ Il Fallimento”p.74, ha sostenuto che il fallimento è disposto nell’interesse dei creditori e serve nella realizzazione dei loro diritti, limitando l’interesse pubblico, persecuzione dei reati commessi dall’insolvente. Di ciò si trova conferma nella riapertura del fallimento, cui sono legittimati soltanto i creditori.

[19] Alcuni autori, configurano nella novella un favor verso categorie interessate (imprenditori, creditori qualificati, consulenti ed esperti), e quindi nei loro confronti una grossa apertura di credito, che augurano possa trovare rispondenza della realtà dei fatti – Gianvito Gannelli, Concordato preventivo ecc., in Dir. Fall., vol.LXXX, 2005, p. 1156 ss.

[20] a) Il Tribunale di Messina, con sentenza n. 323/1977 dichiarò il fallimento della società di fatto tra i Sigg. X ed Y, e ai sensi dell’art. 147 L.F., dei soci X ed Y. L’attivo fallimentare aveva una notevole consistenza immobiliare, pur se  non sussisteva la liquidità per “assolvere regolarmente le proprie obbligazioni”. Fu quindi ravvisato lo stato d’insolvenza e dichiarato il fallimento. E’ avvenuto che uno dei falliti aveva costituito, pochi giorni prima della dichiarazione di fallimento, in patrimonio familiare due appartamenti di notevole valore. Orbene sono trascorsi quasi trent’anni (di cui oltre venti per il giudizio di simulazione del predetto atto intentato dal Curatore, il cui merito si è concluso nel giugno 2000, ed il giudizio di legittimità nel 2005) ed il fallimento non è stato ancora chiuso.

Quel che sorprende è che la liquidazione dell’attivo fallimentare, anche a prescindere dai due immobili acquisiti alla massa in forza del positivo giudizio di simulazione, consente il pagamento integrale dei creditori e delle spese in prededuzione, in esse compreso il compenso al Curatore (certamente lauto per trent’anni di lodevole e proficuo svolgimento dell’Ufficio!).

 I principi fondamentali della  normativa, insolvenza e par conditio, sono stati appieno osservati, i creditori soddisfatti integralmente e quindi tutto bene!!! E’ fin troppo evidente come nel caso prospettato, si sia verificato un indubitabile danno per i creditori che dopo 30 anni riscuoteranno solo nominalmente l’intero ammontare dei propri crediti, viceversa enormemente falcidati dalla svalutazione e dal blocco degl’interessi (è molto probabile che coloro che riscuoteranno, saranno gli eredi dei creditori): un danno per l’economia e l’occupazione ed un elevatissimo ed ingiustificato costo per l’amministrazione giudiziaria.

b) Il Tribunale di Palermo, con sentenza n. 161/2003 ha dichiarato il fallimento della Soc. X, in amministrazione giudiziaria in forza di decreto del Tribunale per le misure di prevenzione. Il fallimento è stato chiesto dall’Amministratore Unico, nominato dal Commissario Giudiziale, in presenza di un’istanza di alcuni lavoratori (ritirata nella fase prefallimentare in seguito al pagamento effettuato dai soci della fallita società) e di alcune ingiunzioni (poi scoperte di modesto ammontare) che, malgrado reiterate richieste dei soci, che volevano pagare effettuando versamenti in conto capitale, mai palesate. Nella fase prefallimentare la società si è opposta alla dichiarazione di fallimento evidenziando: a) che quasi tutte le obbligazioni (specialmente nei confronti del ceto bancario e finanziario) erano a medio e lungo termine; b) che la società possedeva immobili di valore notevolmente superiore al passivo; c) che gl’inadempimenti, di modesta entità, sarebbero stati saldati dai soci; d) che lo stato di difficoltà della società era dovuto ad un elemento esterno (provvedimento del Tribunale) e temporaneo; e) che occorreva mantenere l’attività d’impresa per risolvere la crisi  salvando nel contempo l’occupazione di oltre 30 dipendenti. Nonostante la volontà di adempiere il Tribunale, non concedendo termine per trovare soluzioni concordate, ha dichiarato il fallimento. Da ciò consegue che i creditori saranno soddisfatti in tempi lunghi (già sono trascorsi inutilmente tre anni), che 30 dipendenti hanno perso il lavoro, che si è irrimediabilemte perso il valore residuo dell’impresa e che tanto lavoro avrà il Tribunale (è pendente, in primo grado, giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento).

[21] Una approfondita critica alla precedente normativa sia in ordine ai risultati, che a i costi del sistema, troviamo in Borontini in Costi del fallimento e gestione della crisi nelle procedure concorsuali, Università Cattolica del Sacro Cuore- Centro studi finanziari, Milano, aprile 1996; Cornernelli-Pelli, Efficiecy of Bankrupty Procedury, in temi di discussione, Banca d’Italia, n° 245, dicembre 1994.

[22] Azzolina, Il Fallimento, Vol. III, p. 1596 ss., o UTET. In senso contrario, R. Provinciali, Il Fallimento, vol. III, p. 2522 ss., il quale con un laborioso tentativo di reductio ad unitatem ravvisa nel concordato stragiudiziale “quel contratto giuridicamente idoneo ad evitare il fallimento”. Da ciò conseguirebbe che, qualora non si eviti il fallimento, l’atto sarebbe viziato per mancanza di causa. Si ritengono fondate le critiche mosse a tali tesi, sia perché non individua gli elementi strutturali del contratto, sia perché è sembrato più idoneo attribuire al proposito di evitare il fallimento la natura di motivo o di condizione (sospensiva o risolutiva) di efficacia degli accordi intercorsi, regolati dalle norme generali, afferenti i vari tipi di contratto, che li compongono.

[23] G. Ferrara jr., Il Fallimento, p. 600, Milano, Giuffrè.

[24] P. Guerra, Ristrutturazione del debito e assistenza finanziaria all’impresa: il c.d. consolidamento dei crediti bancari, in Banca, borsa, ecc, 1995, I, p. 807.

[25] Il ricorso, sempre maggiore, al concordato stragiudiziale è stato attribuito da un canto, all’inadeguato sistema normativo ed all’incapacità del legislatore, protrattasi per decenni, di affrontare adeguatamente la crisi dell’impresa, dall’altro  alla tendenza del sistema capitalista a privatizzare il diritto fallimentare, vedi G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, in Riv. Soc. 1996, p. 321 ss.

[26] Vien fatto notare come le banche affrontano la crisi dell’impresa a seconda della sua gravità, pervenendo in un momento iniziale di difficoltà al c.d. consolidamento, che può assumere varie forme: dilazione dei pagamenti dell’intera esposizione, stralcio degli interessi e/o di parte del capitale, rinegozziazione (mutui fondiari); trasferimento dei beni sociali, conversione delle azioni, o quote, in capitale sociale, da conferire a newco appositamente costituite (a seguito della sentenza Cass. 10 dicembre 1992 n. 13095, in Fall., 1993, p. 595 ss.), vedasi in proposito P. Guerra, op. cit.

[27] P. Guerra, op. cit., che sottolinea la necessità per il sistema bancario di dotarsi di uno staff adeguato ad effettuare una esatta valutazione del programma.

[28] P. Guerra, op. cit., il quale auspica una incentivazione delle banche nel ruolo di merchant bank.

[29] I piccoli creditori, in particolare, sono portati al dissenzo o per volontà punitiva (con modesto sacrificio) o per tentare di ricevere un prezzo più elevato.

[30] G. Rossi, op. cit., p. 330; P. Guerra, op. cit., p. 810.

[31] P. Guerra, op. cit., p. 814.

[32] G. Rossi, op. cit., p. 328

[33] G. Rossi, op. cit., p. 324, 325.

[34] La relazione degli esperti sull’attuabilità dell’accordo, diventa con la nuova normativa  un elemento essenziale del meccanismo, che, unitamente all’esenzione dell’azione revocatoria (art. 67 comma 3, lett. A) rende percorribile, eliminando i rischi evidenziati, le soluzioni stragiudiziali della crisi.

[35] Miseramente fallita con la “legge Prodi”, che, a prescindere dai divieti assistenziali imposti dalla C.E., si è rilevata di “sterile inutilità” (G. Rossi, op. cit., p. 331).

[36] Alcuni autori (G. Rossi, op. cit., p. 326-327), in assenza dell’attesa riforma, hanno immaginato che la magistratura, attraverso una interpretazione evolutiva del non più adeguato sistema normativo, potesse attuare le nuove esigenze. Tale ottimistica tesi si è ispirata ad alcune decisioni, quale quella adottata nel caso della Serafino Ferruzzi s.r.l., che certamente sono espressione di una moderna cultura giuridica e consapevolezza del ruolo (aderenti allo spirito della norma, teoricamente intesa come la regola migliore immaginabile in un certo momento storico) ma che, certamente, non determinano la certezza di generale applicazione, ma sono dirette e destinate a determinare pericolose disparità di trattamento. In buona sostanza l’intervento del legislatore è insostituibile (G. Rossi, op. cit., p. 326-327).

[37] Santi Frascaroli, Effetti della composizione stragiudiziale dell’insolvenza, Padova 1995.

[38] Ci si chiede se il successivo pagamento dei dissenzienti con la stessa percentuale degli aderenti venga a ledere la par conditio, configurando il reato, ovvero se tale ipotesi ne sia esimente, pur se la par conditio viene prefigurata dal debitore e non verificata dal Giudice.

[39] Già in vigore ai sensi dell’art. 1 L. 14 maggio 2005 n. 80.

[40] M. Ferro, nuovi strumenti di regolazione dell’insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese fra debitore e creditori : storia italiana della timidezza competitiva, in Fallimento, 2005, 595.

[41] G. Verna, Sugli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis L.F., in Fallimento, 2005, p. 874. L’ autore fra l’altro, limita la responsabilità dell’esperto nei ristretti limiti previsti dall’art. 2043 c.c., tesi che, come approfondiremo in seguito, non tiene conto di altre più pesanti sanzioni, che rafforzano il corretto e professionale compito dell’esperto.

[42] In tal senso M. Caffi, Considerazioni sul nuovo art. 182 bis L.F. in Fallimento, 2005, p. 878.

[43] G.Giannelli, Concordato preventivo, accordo di ristrutturazione dei debiti, piani di risanamento dell’impresa …, in Fallimento 2005, 1171, 1172.

[44] Viene infatti a mancare l’elemento soggettivo del reato e cioè il dolo specifico, consistente nell’intezione di favorire alcuni creditori con la consapevolezza di poter arrecare pregiudizio alla massa.

[45] A. Nigro – Commento all’art. 67 pp. 376-377 in La Riforma della legge fallimentare, Torino, Giappichelli- giugno 2006; Sandulli, La Nuova legge fallimentare, p. 611 ss.

[46] In tal senso anche Santangeli F., Commentario al Nuovo Fallimento, p. 287 ss., Milano, Giuffrè, maggio 2006.

[47] A. Nigro, op. cit.

[48] Santangeli, op. cit., p. 289; Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Commentario all’art. 67/d, UTET, 2006.

[49] Zanichelli, op. cit. Per converso va notato che le regole preposte alla concessione del credito, che le banche sono tenute ad osservare, impongono la previsione di rientro dalle esposizioni accordate con mezzi ordinari di pagamento, riscontrati esistenti (o di certa prevedibilità), mentre l’acquisizione di garanzie va valutato come elemento accessorio di supporto.

[50] Va in proposito aggiunto un’ulteriore riflessione: qualora l’esperto incorresse in false attestazioni o dichiarazioni, le stesse si ritorcerebbero contro l’imprenditore, che incorrerebbe nel reato previsto all’art. 217 L.F. e 216 comma 3 L.F. Da ciò conseguirebbe a carico dell’esperto l’ applicazione della pena , prevista dall’art. 374 bis L.F.

[51] A proposito della valenza delle consulenze non sembra sussistere una concreta differenza di credibilità tra le consulenze, disposte dal Giudice, e quelle che assistono un   imprenditore nei piani di ristrutturazione, destinati al confronto con i creditori (soggetti direttamente interessati). Peraltro non può negarsi che in tal ultimo caso sovviene la presunzione dell’interesse del debitore a superare (con il consenso dei creditori) la crisi, nominando un esperto di non discutibile ed elevata qualificazione professionale.

[52] G. Giamelli, op. cit. p. 1171- 1172.

 

Data di pubblicazione: 5 ottobre 2006.