Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, III/2005

 

Aspetti giuridici della tutela ambientale delle aree costiere * 

 

Guido Camarda **

 

 

 

 

Il codice della navigazione conosce soltanto l’espressione demanio marittimo, non quella di fascia costiera. Quest’ultimo concetto - molto più ampio ed elastico non solo sul piano spaziale, ma anche su quello dell’angolazione socio economica di riferimento - è stato sviluppato, in passato, soprattutto da studiosi di geografia fisica e di geografia economica, sia in conseguenza dello svilupparsi del concetto di ecosistema, sia a seguito di modelli di gestione di attività produttive legate al mare e alla costa.

La “fascia costiera” comprende zone marine e, contestualmente, zone di terraferma. In tal modo, la linea di battigia (o comunque quella linea ideale che segna - sia pure in modo incerto a causa delle maree - il confine tra acque e terraferma), non è più il margine estremo degli spazi di terraferma prossimi al mare (lido e spiaggia e dunque demanio marittimo), ma si colloca al centro della fascia stessa.     

Il (relativamente) nuovo concetto di fascia costiera facilita notevolmente normative e attività amministrative di difesa ambientale, di sicurezza (nel duplice significato di safety e security) e, soprattutto, di sviluppo dei traffici marittimi e di attività connesse. Infatti, viene resa possibile una disciplina unitaria di spazi marini e di terraferma. Quanto ai primi, la dimensione  normale di connessione con la terraferma può individuarsi nel mare territoriale e, per alcuni aspetti, in un ulteriore spazio corrispondente alla zona contigua. Quanto alle altre porzioni di spazio, cioè quelle di terraferma, l’individuazione, se si va al di là del demanio marittimo, deve compiersi caso per caso, sulla base di norme “elastiche” che tengano conto della funzione di compatibilità delle attività economiche di tali spazi con le contigue attività economiche che, nel demanio stesso, si riassumono nella tradizionale espressione usi del mare.

In altre parole e più sinteticamente, si intende sostenere che lo sviluppo delle attività marittime considerata l’evoluzione anche tecnologica del modo di svolgimento di tale attività, non può più avvenire attraverso il solo “asservimento” dell’ esigua fascia di demanio marittimo. Posto che lo stesso demanio richiederà, in una futura riforma, una marcata divisione tra demanio costiero e demanio portuale, non sarebbe ragionevole che un piano urbanistico con le relative destinazioni consentisse, ad esempio, che a margine del demanio costiero si incoraggiassero forme di urbanizzazione incompatibili (per continuare nell’esempio) con la destinazione ad attività di balneazione   o ad attività nautico-diportistiche dell’ulteriore fascia più prossima al mare.

 Le medesime considerazioni possono formularsi con riferimento al demanio portuale per quelle zone “ad esso contigue” che, indubbiamente, devono tener conto dei sempre crescenti bisogni accessori di un porto (spazi per la logistica, spazi per terminal operators, tessuti viari di sbocco alle autostrade, esercizi commerciali che offrano beni e servizi di consueto utilizzo nella navigazione mercantile, da pesca e in quella da diporto).

Lo stretto collegamento, nell’ambito del concetto di fascia costiera, tra spazi demaniali veri e propri ed ulteriori spazi a monte del demanio marittimo, impone e giustifica la fase di trasferimento di ampie competenze di settore alle Regioni, enti che insieme ai Comuni costituiscono l’ossatura del governo del territorio. Non è casuale che, già da epoca non recente, le prime normative che introducono (indipendentemente dalle espressioni lessicali letteralmente usate) il concetto di fasce costiere si rinvengono nelle leggi regionali. Ci si riferisce, con un ulteriore esempio tra i più significativi, alle norme sulle distanze dal mare delle costruzioni ; norme emanate proprio per consentire  che nell’ampia fascia costiera si svolgano soltanto attività compatibili con tutta l’ormai vasta gamma di attività marittime, comprese quelle a carattere ludico.

A questo proposito, devo sottolineare che maggiori difficoltà di inserimento delle Regioni in tale nuovo contesto si riscontrano ormai non tanto sul piano interno, per via degli avvenuti trasferimenti di competenza con provvedimenti ordinari (ben noti sono i decreti Bassanini) e con le riforme costituzionali, quanto in sede internazionale e comunitaria. In quest’ultima sede risulta insufficiente il ruolo affidato al Comitato delle Regioni

A sua volta, con riferimento alla elaborazione delle normative internazionali di settore (si pensi alle modifiche dei protocolli alla convenzione di Barcellona 1976-1995), stentano ad individuarsi, soprattutto in concreto ( cioè malgrado la nuova formulazione dell’art. 117 della Costituzione), forme “ufficiali” di partecipazione delle rappresentanze regionali alla fase dei negoziati

 Per la fase attuativa ed esecutiva degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione Europea, la medesima norma prevede espressamente e più puntualmente che le Regioni provvedano direttamente per le materie di loro competenza.

Ulteriori difficoltà provengono dal fatto che una normativa incentrata sullo sviluppo sostenibile, con l’obiettivo di conservazione e valorizzazione delle risorse naturali in un sistema costiero, è di complessa formulazione. Si tratta di integrare in un unico quadro programmatico una serie di attività nei vari settori, dato che gli usi del mare e le iniziative imprenditoriali ad esse collegate hanno raggiunto una varietà veramente notevole, imponendo complessi giudizi di compatibilità ed imponendo, altresì, l’istituzione, in tempi brevi, di autorità per il management del territorio sul modello francese.

Nella materia si è quasi agli inizi, sia da parte del legislatore nazionale che di quelli regionali. Basti pensare che il Piano nazionale delle coste, già previsto dalla legge 31 dicembre 1982 n. 979, non è stato ancora realizzato, e lo stesso deve dirsi (per quanto mi è dato conoscere) per i relativi piani regionali.

Nell’ordinamento comunitario il processo di formazione di un regime organico  della materia, registra più atti di soft law che vere e proprie prescrizioni cogenti. Mi riferisco, giova ripeterlo, a un’attività di normazione complessiva[1], non a interventi normativi di settore, quali, ad esempio, quelli sul regime delle acque.

A quest’ultimo proposito, risulta evidente la necessità di ampi studi di diritto comparato, in maniera  che il quadro generale di normazione, in sede comunitaria o in sede mediterranea, sia il frutto di una sintesi ponderata delle esperienze dei singoli Sati e non uno schema studiato a tavolino che non tenga conto delle caratteristiche e delle esigenze locali.

I lavori preparatori relativi al nuovo Protocollo sulla gestione integrata delle zone costiere, muovendo dalle esigenze di una definizione univoca di zona costiera, confermano anzitutto che è ormai maturo il tempo per normative che, nel settore, abbiano un minimo di cogenza.

Il nuovo quadro normativo è particolarmente rilevante, perché segna il passaggio dalla fase dei divieti a quella della vera e propria cooperazione negli spazi marini mediterranei, venendo così a costituire un importante premessa per l’istituzione della zone economiche esclusive. Tale istituzione, aggiungo per inciso, è da me ritenuta ancora necessaria, pur in un progetto di gestione comune delle risorse, non foss’altro perché delimiterebbe meglio suddivisioni di poteri e competenze con una più stretta rispondenza alla normativa UNCLOS, che, quale strumento di diritto internazionale mondiale, viene anche riconosciuta da Paesi estranei al Mediterraneo.

Il Protocollo, per la prima volta, consentirà schemi di gestione terra- mare, muovendosi nell’ambito di quel concetto di fascia costiera che ho cercato di delineare agli inizi. Viene previsto un coordinamento con le autorità locali, il che non è di poco rilievo se si tiene conto che si tratta di un quadro normativo internazionale.

In conclusione, la gestione integrata delle coste, con l’obiettivo di una migliore tutela ambientale e della promozione effettiva di uno sviluppo sostenibile, non può che trovare attuazione nell’ambito di quadri normativi a carattere sopranazionale e “internazionale regionale”. I Paesi che si affacciano nel Mediterraneo, ed in particolare le piccole e grandi isole, sono radicalmente collegati alla dimensione europea, ma anche a quella del loro grande mare, che vede affacciarsi anche Paesi che non fanno parte dell’Unione Europea. Tutto ciò, per gli Stati comunitari mediterranei, può costituire una ricchezza in più, persino in termini di regole di protezione e gestione, a condizione, però ,che i due regimi (quello che si riferisce al sistema della Convenzione di Barcellona 1976-95, e quello di derivazione comunitaria), risultino, a loro volta, fortemente … “integrati”.

 



* Relazione svolta  al Convegno organizzato dall’ISPROM “Il sistema costiero del Mediterraneo e lo sviluppo sostenibile del territorio”, Cagliari-Carbonia 10-11 dicembre 2004.

** Ordinario di diritto della navigazione nell’Università degli studi di Palermo.

[1] v. Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 maggio 2002, relativa all'attuazione della gestione integrata delle zone costiere in Europa; Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sulla gestione integrata delle zone costiere: una strategia per l'Europa, COM/2000/547.

 

 

Data di pubblicazione:  8 aprile 2005