Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, III/2005

Profili dell’interpretazione giuridica.

L’età della codificazione e la funzione dell’interpretazione *

Diego Ziino **

Sommario:

1. Ermeneutica ed interpretazione giuridica. Considerazioni preliminari.

2. Brevi cenni storici in ordine alla normativa introdotta dai codici sulle regole di interpretazione della legge e del contratto 

3. I diritti codificati e la situazione di conflittualità intorno al concetto di interpretazione 

4. Le problematiche legislative, la norma generale e la fattispecie concreta 

5. L’interpretazione e i riferimenti al principio di equità 

6. L’equità ed il risarcimento del danno non patrimoniale 

7. Il problema legislativo ed i caratteri della interpretazione 

8. L’ipotesi di conflitto tra le disposizioni di legge da un lato ed i principi della scienza giuridica dall’altro. La funzione della interpretazione 

9. Alcuni profili di tecnica interpretativa 

10. La funzione della costruzione logico-giuridica in rapporto al fenomeno della interpretazione 

11. L’orientamento politico legislativo come criterio di interpretazione e la revisione degli schemi concettuali tradizionali

12. Evoluzione e crisi del Diritto del privato. La Costituzione e la tutela dei diritti fondamentali. Diritto pubblico e diritto privato. Diritto naturale e diritto positivo. Lo Status e gli Status.

13. Dal diritto del singolo agli interessi collettivi. Le limitazioni all’autonomia dei privati. i c.d. gruppi intermedi e la nuova categoria di autonomia: quella collettiva 

14. Interpretazione della legge ed accertamento del diritto. Il linguaggio giuridico. Intepretatio e voluntas legis

15. Prime considerazioni. Il rilievo del metodo interpretativo. La postdecodificazione.

16. Validità ed attualità del profilo storico-metodologico 

 

1. Ermeneutica ed interpretazione giuridica. Considerazioni preliminari.

L’arte, la tecnica e l’attività di interpretare in senso lato si suole definire ermeneutica[1]. Si può parlare di scienza delle regole e delle norme che permettono di interpretare il senso autentico di un testo.

Tali regole riguardano i libri e i documenti antichi, i monumenti, la ricostruzione critica di un testo, la conoscenza del genere letterario, dell’ambiente storico culturale in cui si è formato, le eventuali interferenze – in senso lato – con altre opere.

L’ermeneutica è anche un indirizzo della filosofia contemporanea che va oltre la interpretazione dei testi, che non limita la stessa, ma la generalizza come dimensione costitutiva dell’uomo e che si rapporta al mondo attraverso la misura, il valore dei segni linguistici in cui si riflette la storicità dell’esperienza comunicativa.

Il termine è stato assunto per indicare il metodo del comprendere proprio della filosofia ed in particolare nello storicismo e, poi, nella fenomenologia. Nella critica letteraria l’ermeneutica è stata intesa come l’opera interpretativa che permette allo studioso di raggiungere un contatto intersoggettivo con l’autore studiato e ciò attraverso un processo di interiorizzazione[2].

Heiddeger offre una interpretazione della modernità e conseguentemente della proprietà specifica della tecnica moderna al di fuori degli abituali schemi di “filosofia della cultura”, e intende così il valore positivo e propositivo della interpretazione della scienza e della tecnica moderna come realizzazione della storia della conoscenza e quindi della metafisica intesa come indagine di ciò che è al di là della esperienza per pervenire alla spiegazione dei principi essenziali della realtà[3].

Una applicazione pratica della ermeneutica e quindi “arte” è l’esegesi intesa come studio ed interpretazione critica di un testo. Nell’esperienza giuridica l’attività interpretativa assume un ruolo centrale e fondamentale.

La ragione e la portata delle problematiche ermeneutiche, dalla comprensione del contesto significativo della norma all’inquadramento della fattispecie concreta, dalla lettura del dato normativo alla sua applicazione al caso singolo, costituiscono uno dei punti di partenza della teoria del diritto.

La ermeneutica giuridica ha sì raccolto ed elaborato gli insegnamenti della filosofia ermeneutica, tuttavia la locuzione indica una teoria della interpretazione giuridica che gode di autonomia scientifica ed ontologica, perché mentre la seconda (la filosofia ermeneutica) va intesa come scienza pura, la prima (la ermeneutica giuridica) trova il suo oggetto di studio nel testo della legge, che offre anche gli strumenti obbligatori per l’interpretazione e l’applicazione.

I criteri interpretativi sono predisposti dall’autore della norma, dal legislatore, il quale crea il dato normativo e crea anche gli strumenti per rivelare la volontà dell’autore, ossia il legislatore stesso[4].

Nell’attività giuridica quella interpretativa svolge un ruolo di evidente centralità. L’esperienza giuridica che va dalla comprensione della norma all’inquadramento della fattispecie concreta, ed ancora dalla lettura del dato normativo alla sua applicazione, delinea la ragione e l’entità delle problematiche ermeneutiche nel campo della teoria generale del diritto.

Indubbiamente la locuzione ermeneutica giuridica non è di semplice definizione anche perché mutevole nel tempo e nello spazio. Il significato ricorrente più frequente è quello di una teoria della interpretazione giuridica che risurge per li rami nella filosofia ermeneutica dalla quale trae ed elabora gli insegnamenti e la metodologia.

Un acuto e profondo giurista (BETTI) ha dedicato al problema numerosi contributi di rilevante valore scientifico[5]. Egli avvertì l’esigenza, partendo dalla ermeneutica tradizionale e poi dalla teoria generale della interpretazione, di far discendere da questa la scienza della interpretazione giuridica.

Fondamento della teoria del Betti sono i quattro criteri normativi ermeneutici che occorre osservare e che garantiscono la riuscita nell’ambito della teoria della conoscenza: la epistemologia della interpretazione.

I quattro criteri riguardano due l’oggetto, vale a dire l’autonomia e l’immanenza del criterio ermeneutico, nonché la totalità e la stretta convenzione logica dell’apprezzamento ermeneutico; e due il soggetto, cioè la attualità dell’intendere e l’adeguazione dell’intendere il criterio di verità in base al quale una conoscenza risulta vera se corrisponde all’oggetto dell’intendere.

Detti criteri tracciano la retta via interpretativa che è orientata verso una concezione oggettivistica della interpretazione atteso che il significato deve essere tirato fuori dal dato da interpretare: sensus non est inferendus sed efferendus[6].

Conseguentemente l’interprete è subordinato alla norma, anche se deve svolgere un’attività di interpretazione giuridica. Betti parla di “circolo di reciproca e continua rispondenza fra il vigore della legge (o fonte di diritto) onde si desumono le massime della decisione ed il processo interpretativo che se ne fa nella giurisprudenza e nella scienza giuridica”[7]. Per Betti deve parlarsi di una disciplina ermeneutica autonoma che assume differenti connotazioni nei vari campi delle scienze: diritto, morale, teologia, arte, letteratura, etc. Il problema della interpretazione coinvolge l’intero campo della conoscenza e, quindi, anche quello giuridico[8].

L’ermeneutica giuridica si è rapidamente costituita come un nuovo e generalissimo indirizzo della teoria della conoscenza esplicitamente orientata a superare l’incapacità della giurisprudenza di considerarsi e funzionare come teoria della prassi giuridica.

2. Brevi cenni storici in ordine alla normativa introdotta dai codici sulle regole di interpretazione della legge e del contratto

 Dalla interpretazione che i Glossatori e i giuristi italiani ad essi posteriori (i Commentatori) eseguirono della compilazione giustinianea, e quindi su base prettamente romana, sorge il diritto comune, che si estende grado a grado per tutta l’Europa sino a che nel secolo XVI, è accolto come legge vigente in Germania[9]. Il diritto privato romano, restaurato dalla scuola bolognese e adattato dai giuristi, si impose per la sua perfezione, sovrastando le naturali diversità tra i vari popoli. Si trattava di un corpus juris di valore generale che si presentava indipendente dalla autorità statale ed anzi, per certi versi, a questa superiore.

Dovevano trascorrere alcuni secoli e si doveva giungere al 1804, allorquando ben 37 leggi venivano riunite e promulgate come unico codice che prese il nome di Code Civil des Français[10]. E per voler ufficializzare e segnare il passaggio da un’epoca all’altra della storia giuridica, cioè il passaggio dal diritto comune alla nuova età, quella della codificazione, l’art. 7 così testualmente recitava: «compter du jour où ces lois sont exéutories, les lois romaines, les ordonnances, les costumes générales ou locales, les réglement, cessent d’avoir force de loi général on particulière, dans les matières qui sont l’objet des dites lois composant le présent Code»[11]. Lo stesso Napoleone approvava la versione italiana del codice con decreto del 16 gennaio 1806, e dal 1° aprile successivo entrava in vigore in tutti i dipartimenti della monarchia italica la traduzione del code Napoleon, che veniva ufficialmente denominato “Codice Napoleone il Grande pel Regno d’Italia”.

Per confermare e rimarcare che, sotto il profilo giuridico, realmente incipit vita nova, l’art. 3 abrogava espressamente tutte le fonti normative anteriori[12].

Il 3 settembre del 1807 il codice civile francese prese il nome di code Napoleon, con il quale è conosciuto dalla storiografia giuridica e dalla dottrina, e con tale nuova dizione venne pubblicato con decreto imperiale[13].

Indubbiamente il codice Napoleone è un’opera che segna una svolta epocale[14] paragonabile per importanza alla codificazione giustinianea.

Il patrimonio ideale della società borghese, le idee fondamentali che ne costituivano l’ispirazione ed il fondamento, vennero recepite ed interpretate nello strumento legislativo.

Queste idee, sorte dalla rivoluzione, segnavano il nuovo volto del secolo che iniziava ed il nuovo volto del diritto privato.

Basti porre attenzione ai principi quali: la laicità dello Stato, la libertà del soggetto di fronte allo Stato, la eguaglianza degli individui davanti alla legge, il diritto di proprietà inteso come diritto assoluto della personalità umana, l’autonomia individuale e la libertà del lavoro[15].

L’opera può essere definita rivoluzionaria sotto vari profili sia perché comprendeva, portava a compimento e riconosceva legislativamente le conquiste della rivoluzione sia perché cambiava radicalmente il sistema previgente[16].

Il codice è caratterizzato dalla pretesa di costituire un ordinamento giuridico nuovo, completo, e definitivo, che racchiude nelle sue formulazioni le soluzioni di tutti i possibili casi e questa è la caratteristica che lo distingue dalle consolidazioni legislative anteriori dirette soltanto a riordinare il diritto vigente. Può dirsi, in maniera incisiva, che la consolidazione guarda al passato e la codificazione al futuro.

L’idea del codice nel diritto privato può essere così posta in relazione da un lato con la formazione degli Stati, con il concetto della statalità del diritto, con l’ideale di nazione, e dell’altro con il movimento giusnaturalista e con la concezione logico-formale del diritto.

Questo concetto trova la sua giustificazione nella necessità della certezza sostanziale e processuale del diritto, fondamento di ogni Stato. La semplificazione del “sistema” rende prevedibile la soluzione che deve essere data dalla sentenza.

Il concetto della statalità del diritto porta ad identificarlo con la manifestazione normativa e, quindi, alla pretesa di potere determinare con ragionamenti “a priori”, un regolamento completo e definitivo di tutto il diritto privato.

Altro rilevante profilo del code Napoléon è costituito dal fatto che gli Istituti più importanti da esso disciplinati ebbero i caratteri della generalità ed astrattezza. Le situazioni normative assunsero carattere generale, non necessariamente legate al soggetto od alla sua attività, ma tuttavia capaci di subire alterazioni, modificazioni e di essere utilizzate anche al di là dell’àmbito dei rapporti privati: si pensi ad istituti quali la proprietà, il contratto, l’obbligazione, l’atto illecito[17].

I tre libri sono preceduti da un titolo preliminare, De la pubblication des effets et de l’application des lois en général.

Il codice Napoleone nel titolo preliminare sanziona i principi della irretroattività e della inderogabilità della legge, salvo i limiti posti dall’ordine pubblico e dal buon costume.

Più in particolare al giudice era vietata ogni interpretazione della norma, gli era imposto di decidere tutte le controversie, non potendo assumere come pretesto, il silenzio, l’oscurità o il difetto della legge, pena l’accusa di denegata giustizia[18].

In tal modo il codice configurava un sistema completo e privo di carenze con la conseguenza che il giudice doveva applicare le disposizioni normative. Tuttavia l’obbligo di giudicare non riassegnava al giudice quel ruolo normativo che egli aveva esercitato durante l’Ancien Régime; egli ormai è divenuto un funzionario pubblico dovendosi limitare ad applicare le disposizioni del codice[19]. Il seguente art. 5 vieta ai giudici di porre in essere pronunce che hanno carattere di “disposizione generale”[20].

Essi hanno il dovere di risolvere sempre e comunque ogni controversia operando all’interno del sistema normativo e con gli strumenti predisposti dallo stesso.

Le disposizioni che precedono dettano una disciplina rigorosa che riduce notevolmente l’autonomia dei magistrati, limitandola alla applicazione delle disposizioni.

È iniziata l’età della codificazione[21]. Con una frase molto incisiva uno studioso francese diceva di non insegnare il diritto civile, ma il codice di Napoleone, portando così alle estreme conseguenze il programma della scuola delle esegesi.

Napoleone si mostrò avverso alla interpretazione delle leggi. Egli affermava che gli interpreti sconoscono la legge, la rendono oscura con il miscuglio di strane idee ed hanno la pericolosa arte di rendere problematico il testo più chiaro, proponendo dubbi e generando questioni: Ils tuent la loix, ils l’obscuricissent par le mélange d’idées étrangères et que rien ne garantit; ils ont l’art dangereux de rendre problématique le texte le plus clair, et d’en tirer des deutes et des questions[22].

In tal modo l’imperatore fece proprio il principio di Giustiniano (che seguiva le idee di Cesare), secondo cui l’interpretazione della legge compete soltanto a chi aveva il diritto di crearla: “soli auctoritati Augusti concessum est leges et condere et interpretari”.

Già, in precedenza, Giustiniano, nelle costituzioni De veteri jure enucleando e De Legibus, riservava al solo imperatore il diritto di risolvere i dubbi di interpretazione della legge[23].

Peraltro antichi legislatori furono contrari alla interpretazione della legge a causa dell’abuso che i sofisti facevano della giurisprudenza.

Nulla dice il codice Napoleone sulle regole della interpretazione normativa.

Il Codice Civile del regno di Sardegna, che prende il nome di codice albertino (dal re Carlo Alberto), venne promulgato nel 1837 dopo aver superato numerose difficoltà, e rappresenta il trait d’union tra la codificazione Napoleonica (del 1804) e quella postunitaria (del 1865), ed inserisce alcune innovazioni di rilevante interesse atteso che è il primo codice che riporta “i principi generali del diritto” intesi come fonte per il giudice in caso di lacuna, espressione poi riportata nelle successive legislazioni e riprodotta (nella sostanza) dall’art. 12 delle vigenti disposizioni sulla legge in generale[24].

Il passaggio per arrivare all’art. 12 delle vigenti disposizioni sulla legge in generale è l’art. 3 del codice civile del 1865[25].

Il successivo art. 4 prevedeva che le leggi penali e quelle che restringono il libero esercizio dei diritti e formano eccezioni alle regole generali o ad altre leggi, non si estendono oltre i casi e i tempi in esse espressi[26]. Si volle evitare di dare ai giudici il potere di interpretare non subordinato alla legge che vieta di estendere i precetti penali, perché sarebbe stato concedere loro un illimitato arbitrio. Applicando, in tal modo, un principio formulato dai giuristi romani: “odia sunt restringenda, favores ampliandi”.

Diversa e più semplice è la genesi delle disposizioni sulla interpretazione del contratto dato che nel codice Napoleone la Sez. V del libro III, titolo III, agli artt. 1154-1160 regola “L’interpetration des conventions”.

Il codice civile del 1865 tratta della interpretazione dei contratti agli artt. 1131-1139, ed il vigente codice agli artt. 1362-1371, al capo IV del libro quarto.

L’art. 1156 del codice di Napoleone parla de la commune intention des parties contractantes, plutôt che s’arreter au sense littéral des termes, così come l’art. 1362 cod. civ., a proposito della intenzione dei contraenti, parla della “comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”.

Il principio della conservazione del contratto è regolato dall’art. 1157 cod. Nap. (art. 1367 cod. civ.); le pratiche generali interpretative sono previste dagli artt. 1558-1559 cod. Nap. (art. 1368 cod. civ.); il principio dell’interpretazione complessiva delle clausole è tutelato dall’art. 1161 cod. Nap. (art. 1362 cod. civ.); l’interpretazione contro l’autore della clausola è regolato dall’art. 1162 cod. Nap. (art. 1370 cod. civ.); la normativa relativa alle espressioni generali è prevista dall’art. 1163 cod. Nap. (art. 1364 cod. civ.); ed infine la regola delle indicazioni semplificative trova tutela nell’art. 1164 del cod. Nap. (art. 1365 cod. civ.).

3. I diritti codificati e la situazione di conflittualità intorno al concetto di interpretazione

 L’interpretazione aveva natura dichiarativa, perché il potere legislativo si riservava la prerogativa di ogni funzione dello sviluppo del diritto. L’unica fonte del diritto è la legge.

In precedenza anche l’interpretazione di un diritto tradizionale o naturale veniva considerata come dichiarativa: la communis opinio doctorum ed i precedenti giurisprudenziali acquisivano, di fatto, valore di diritto.

Il sistema del codice è considerato idoneo per offrire la soluzione di qualunque fattispecie.

La tecnica logica è quella del metodo deduttivo, che si contrappone al metodo induttivo che attiene alla realtà dei fenomeni dell’esperienza.

Di contro il metodo deduttivo deve essere considerato come ipotetico, perché le sue premesse possono essere soltanto leggi, provate a seguito di procedimento logico che consiste nel ricavare da osservazioni ed esperienze particolari i principi generali in essa impliciti e che, partendo dall’esperienza, perviene alla determinazione dei concetti, e le sue conseguenze debbono essere verificate da esperienze specifiche.

Trattandosi di metodo deduttivo il processo logico deve partire da una premessa maggiore che è posta dal legislatore: la norma nella sua generalità ed astrattezza, e da essa discende il particolare.

L’ordinamento giuridico è una emanazione dello Stato è costituisce un organismo completo, integro, senza lacune che il giudice è chiamato ad applicare.

Si tratta di una concezione di unità del diritto che proviene dallo Stato ed è fondato sul vincolo della norma giuridica.

La scienza del diritto attinge unicamente alle leggi positive. Il metodo giuridico va distinto da quello sociologico. Le norme derivate col metodo sociologico, coll’essere, non con la constatazione del dovere, non sono norme giuridiche[27].

È per questo che i codici si moltiplicarono, perché prevalse la tendenza a codificare anche materie particolari che si andavano aggiungendo a quelle regolate dai codici tradizionali.

L’idea del codice continuò a basarsi sulla necessità fondamentale della certezza del diritto e sull’eguaglianza giuridica, intendendo per codificazione la consacrazione definitiva di nuovi principi giuridici.

Di contrario indirizzo fu Savigny e, poi, la sua scuola[28]. L’idea di un codice civile, analogo a quello che Napoleone aveva dato alla Francia e che altri Stati avevano rapidamente imitato e promulgato, era respinta sia per ragioni politiche – non si poteva pensare ad un legislazione germanica finché i tedeschi non fossero riuniti in un solo Stato – ma anche e soprattutto per ragioni più profonde, attinenti ai modi di formazione e alla evoluzione del diritto positivo. Il diritto non può essere frutto di arbitrio legislativo, ma è fondato sulla moralità, la fede, il sentimento, le tendenze intellettuali di ciascun popolo, allo stesso modo come la lingua e l’organizzazione politica; perciò esso si sviluppa organicamente insieme col popolo a cui appartiene, progredendo col suo progredire e decadendo col suo decadere. Per Savigny la parte essenziale dell’ordinamento giuridico è, quindi, essenzialmente consuetudinaria e la legge non può che essere fonte complementare, in quanto serve soltanto a risolvere dubbi, a colmare lacune. La scienza del diritto ha il solo fine di risalire alle sorgenti, alle prime manifestazioni del sistema in vigore, in modo da intenderlo nella sua vera essenza[29].

Tuttavia il concetto e il contenuto della definitività che aveva caratterizzato il codice, si andava perdendo di fronte al sempre maggiore numero di leggi, più o meno speciali, che lo andava completando e modificando.

La esigenza di una maggiore giustizia sociale rese necessario una legislazione più complessa, contrastando, in tal modo, al carattere formalista del diritto vigente.

Al codice si collegò una trasformazione del concetto di interpretazione e dei suoi metodi tecnici.

All’interprete non si riconobbe più il solo compito di chiarire il pensiero del legislatore[30].

Dalla interpretazione della volontà del legislatore si passò alla interpretazione della volontà della legge, e quindi, al metodo storico-evoluzionistico o alla contrapposizione di scienza e tecnica con una simultanea e naturale rinascita degli studi filosofico-giuridici e, in taluni casi, anche una accentuazione dell’importanza della giurisprudenza.

Si verificò, quindi, un contrasto tra i concetti giuridici tradizionali ed i concetti giuridici nuovi, sicché si giunse ad una contrapposizione tra i vari orientamenti metodologici: alcuni propensi alla conservazione dei principi giuridici tradizionali, mentre altri, di contro, miravano ad una maggiore libertà dell’interprete.

Si acuì il contrasto fra la tendenza esegetica che possiamo definire logico-dogmatica, e quella di natura sociologica.

Si riflette, così, nella teoria dell’interpretazione il contrasto tra i due orientamenti del pensiero giuridico: quello dogmatico rivolto alla certezza del diritto, alla difesa della discrezionalità individuale e preoccupato dell’armonia logica del sistema; e quello sociologico rivolto all’equità della soluzione, agli interessi della collettività e preoccupato delle peculiarità economiche relative alle varie fattispecie.

Il problema del sistema codificato non nasce soltanto dalla impossibilità per il legislatore di disciplinare l’intera materia e che si presenta sin dal momento in cui la legge è pubblicata; ma soprattutto dal contrasto, per altro inevitabile, tra l’evoluzione, il divenire della vita ed il sistema codificato: il corpus juris, dal contrasto cioè tra il fenomeno e le categorie e gli schemi precostituiti.

La problematica assume valore assoluto atteso che riguarda qualunque diritto positivo e, conseguentemente, tutte le codificazioni.

Fonte di evidente equivoco è ritenere la esaustività del sistema positivo: il problema è quello delle lacune dell’ordinamento giuridico; l’esistenza di tale problema rileva la differenza fra il nuovo orientamento e quello anteriormente prevalente, sia dei sistemi tradizionali che di quelli codificati.

Sotto il profilo giuridico, di regola, non è ipotizzabile l’esistenza di lacune atteso che la funzione dell’interprete è sempre necessariamente dichiarativa.

Tale natura trova il suo fondamento nel principio della certezza del diritto atteso che la soluzione di ogni singolo caso deve coordinarsi con la normativa generale che regola una categoria di fattispecie con caratteristiche determinate.

Non applicando tale regola verrebbe meno qualsiasi punto di riferimento. Al principio della certezza del diritto si sostituirebbe l’arbitrio.

La soluzione di ogni singolo caso deve armonizzarsi con una norma generale preordinata, anche quando legalmente il giudice decide secondo equità (artt. 1226, 1384, 1450, 1568, 2056, 2° comma, cod. civ. e artt. 113, 2° comma, e 432 cod. proc. civ.).

Deve dirsi, però, che in realtà l’interprete non esercita una funzione meramente dichiarativa, bensì di natura creativa, dato che qualunque interpretazione posa stabilmente su una ricostruzione della norma interpretata e ne costituisce uno sviluppo o un adattamento.

Applicare un principio giuridico ad una fattispecie tende a trasformarsi in precedente perché ogni caso concreto di cui si tratta in giudizio può essere giuridicamente considerato solo come fattispecie tipica astrattamente e schematicamente.

Questa funzione creativa della interpretazione è insita nella sua stessa natura e trova la sua consacrazione nell’art. 12 disp. di att. del cod. civ. e nelle normative delle precedenti codificazioni.

Giova rilevare, per completezza, che la funzione creativa della interpretazione ha un suo fondamento storico e si è realizzata anche indipendentemente dalla disposizione di legge che la autorizzava espressamente.

Basta porre attenzione all’opera della giurisprudenza francese sul codice napoleonico che, come già sopra esposto, non prevede il ricorso né alla interpretazione né alla analogia[31].

Di contro per Savigny la giurisprudenza non ha soltanto il compito di cogliere storicamente le leggi di un determinato tempo e per un determinato popolo, ma l’interpretazione deve essere coordinata in una visione sistematica[32].

4. Le problematiche legislative, la norma generale e la fattispecie concreta

Neque leges neque senatus consulta ita scribi possunt, ut omnes casus qui quandoque inciderint comprahendantur, sed sufficit ea quae plerunque accidunt contineri[33]. Già i giuristi romani[34] avevano avvertito e messo in luce il problema della non completezza di qualunque sistema giuridico a causa del continuo divenire delle esigenze della vita e dei rapporti economici e sociali, di contro la necessaria staticità di qualsiasi corpus juris.

Non si tratta soltanto di impossibilità pratica, atteso che la funzione del diritto richiede un sistema che non ammette variazioni, mutamenti o innovazioni fuori dal quale non potrebbe essere assolta.

La indeterminatezza è caratteristica del diritto. I comportamenti e le azioni non si possono confrontare né valutare giuridicamente se non raffrontandoli a proposizioni astratte, tenendo conto delle caratteristiche delle singole fattispecie concrete, intese, cioè, come fatti concreti, senza tenere conto di altre circostanze anche se possono avere rilevanza sotto il profilo morale od economico.

La funzione della interpretazione ha il proprio fondamento nell’adattamento e nel continuo rinnovamento dello schema, dato che deve tenere presente le fattispecie concrete tipicamente ed astrattamente.

Non è ipotizzabile lo sviluppo del diritto senza fare ricorso alla interpretazione, diversamente si provocherebbe una eccessiva rigidità e conseguentemente un’inflazione legislativa legata ad un pericoloso aumento delle attività legislative del potere esecutivo e si verificherebbe l’effetto preoccupante dell’alterazione del carattere stesso della norma che da generale ed astratta si trasforma in occasionale.

L’effetto è costituito da una continua produzione di leggi che finisce con compromettere ed insidiare la certezza giuridica e lo stesso senso della legalità[35] intesa quale conformità alle leggi positive ed osservanza di esse nella loro determinatezza e con l’invadere il campo del potere giudiziario con l’(ab)uso di continue norme interpretative.

Allo stesso modo sostituendo ad un sistema di soluzioni coordinate le decisioni adottate caso per caso, si perverrebbe ad un risultato analogo, perché verrebbe meno il principio di legalità e quello della certezza giuridica che costituiscono la garanzia della libertà individuale.

Verrebbe ad affermarsi il principio del decisionismo che sostituisce alla certezza della legge le scelte soggettive dell’interprete.

La soluzione è quella di dare all’interprete (inteso come genus) ed al giudice (species) gli strumenti per potere realizzare una corretta opera di interpretazione che avrà sempre per risultato lo sviluppo del diritto, ed un suo adattamento ai problemi che il divenire della vita propone nel suo svolgimento quotidiano.

Può verificarsi un vuoto di regolamentazione: le c.d. lacune che costituiscono i modelli più macroscopici della funzione dell’interprete nello svolgimento del diritto.

Il sistema della codificazione non ammette le lacune atteso che, con il rimedio della interpretazione estensiva e della analogia ed il ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico (art. 12, 2° c. disp. prel. al cod. civ.), il giudice deve sempre trovare la regola giuridica per decidere la fattispecie concreta sottoposta al suo esame in applicazione dell’affermato principio della completezza dell’ordinamento giuridico.

Differente è il sistema dei paesi di common law in quanto ad essi non è esteso il sistema della codificazione e muovono dal principio della incompletezza dell’ordinamento giuridico, che porta ad assegnare al giudice un ruolo che, in buona sostanza, lo avvicina a quello del legislatore.

Giova dire per chiarezza, anche se sul punto si tornerà in maniera specifica più avanti, che il giudice inglese non crea la norma, limitandosi ad esprimere e quindi esternare una regola che nasce dal diritto ed appartiene allo stesso.

La funzione dell’interprete nello svolgimento del diritto è propria di ogni interpretazione perché strettamente inerente alla necessità di fare continua applicazione del sistema normativo ad una vita sociale ed economica in continuo ed ininterrotto sviluppo.

Ed ancora questa funzione peculiare e distintiva della interpretazione, anche nei riguardi di un risultato già in precedenza raggiunto in via di interpretazione, a sua volta costituisce un nuovo punto di partenza per successivi sviluppi.

E può affermarsi che anche quando il giudice fa ricorso alla soluzione secondo equità, intesa quale principio di integrazione ed interpretazione del contratto, quando cioè il contratto stipulato a condizioni inique o divenuto eccessivamente oneroso è ricondotto ad equità (art. 1450, 1460, 1467 cod. civ.), il risultato raggiunto tende a trasformarsi in una regola, perché ogni fattispecie concreta deve essere considerata come un caso tipico.

Con ciò non si vuole affermare che l’equità rientra tra le fonti del diritto come la legge o gli usi (art. 1 disp. prel. del cod. civ.)[36], ma come processo di interpretazione concorre allo sviluppo del diritto attesa la funzione svolta in tal senso dal processo ermeneutico (come si vedrà in maniera più completa nel paragrafo successivo).

5. L’interpretazione e i riferimenti al principio di equità

 Questo argomento merita un necessario approfondimento perché può essere fonte di equivoci.

Già la nozione o, per essere più esatti, il concetto di equità è stato oggetto, storicamente, di differenti determinazioni e definizioni. Il legislatore lascia all’interprete caso per caso di determinarne il contenuto.

Si è cercato di ricondurre e di risalire attraverso le dizioni del legislatore ad un concetto unitario, senza, però, risultati apprezzabili.

È opportuno un breve excursus storico.

Nel diritto romano classico, e più ancora nel diritto giustinianeo, la equità ha grande rilievo, sia se concepita astratta e generale cioè come idea di giustizia, sia se intesa in senso particolare cioè riferita al singolo caso concreto.

Basti porre attenzione alla famosa definizione di Celso che così ne delimita il contenuto: jus est ars boni et aequi[37].

Tutte le norme dello jus honorarium e dello jus gentium si ispiravano alla equità in contrapposto allo jus civile che si connotava per la sua rigidità, la sua severità, il suo formalismo. Le soluzioni adottate per risolvere le singole controversie si riportano alla equità che assume la connotazione di fonte autonoma del diritto perché serve ad adiuvandi vel supplendi vel corrigendi juris civilis gratia[38].

I romani adoperavano il termine aequitas nel senso di giustizia: foedes aequam è il patto con il quale due popoli negoziano in regime di eguaglianza, di giustizia.

Di contro iustitia era la conformità allo jus, alle leggi: iustae sono le nuptiae celebrate secondo il diritto.

Successivamente, sotto l’influenza delle nuove idee, con il modificarsi dei rapporti sociali dentro e fuori la civitas, con il mutare delle esigenze e con le aspirazioni della coscienza comune, si parla di benigna aequitas, in quanto, nella applicazione del giusto, si fanno valere principi di umanità, benignità, misericordia.

Assai differente nozione è quella della επιείκεια greca, alla quale faceva riferimento il concetto di aequitas nella cultura latina medievale.

Per Aristotele l’equità è il riequilibrio del giusto legale reso necessario dalla universalità della legge[39], e chiarisce il rapporto tra la giustizia e l’equità che non sono né la stessa cosa, né cose diverse per genere, atteso che “l’equo è pur giusto ma non secondo la legge, bensì è correzione e supplemento del giusto legale”, giacché “questa è appunto la natura dell’equo, di integrare la legge là dove essa è insufficiente a causa del suo esprimersi in termini generali”.

La determinazione del concetto di equità ha affaticato giuristi e filosofi che hanno sviluppato la teoria aristotelica verso quella che fu definita “giustizia del caso singolo”, che sta a significare, detto in termini diversi, giustizia correttamente applicata.

Quindi, sotto il profilo speculativo, l’equità è il sentimento sincero e spontaneo del giusto e dell’ingiusto, soprattutto nella misura in cui si manifesta nell’apprezzamento di un caso concreto e particolare. Nel diritto l’equità si oppone alla lettera della legge o alla giurisprudenza[40].

Nel codice civile manca un rinvio generale all’equità e una definizione di essa, vi è un rinvio soltanto in alcuni articoli (733, 1226, 1349, 1374, 1384, 1450, 1467, 1468, 1526, 1651, 1660, 1664, 1733, 1736, 1749, 1751, 1755, 2045, 2047, 2056, 2109 – 2111, 2118, 2120 cod. civ.).

Il codice civile fa dell’equità un trattamento di fonte distinta del diritto.

Attribuendo all’equità una funzione correttrice del diritto, come giustizia in un dato caso, non può il giudice richiamarsi ad essa se non nei casi tassativamente stabiliti dal legislatore.

L’equità tende ad attenuare le rigorose conseguenze delle norme o ad integrarle.

Ne consegue che l’equità è si la giustizia del caso concreto, ma anche l’affermazione, in relazione alla fattispecie in esame, di qualcosa di nuovo: un principio che può trovare applicazione generale.

Il rapporto tra diritto e equità non può essere compreso se non considerando l’evoluzione storica di un diritto, sicché la soluzione equitativa adottata si può affermare come un principio generale da applicare in futuro.

Occorre non dimenticare che l’equità ha valore di fonte del diritto soltanto quando è richiamata espressamente dalla legge, atteso che il nostro sistema giuridico è fondato sull’applicazione del principio di legalità. Tuttavia l’equità, nell’ambito della applicazione della norma, esercita una funzione di equilibrio nella valutazione, ad una applicazione della legge temperata da considerazioni di giustizia dei casi particolari[41].

Il contrasto tra diritto ed equità non è altro che quello tra diritto tradizionale e nuovi principi giuridici, che si affermano inizialmente in relazione a quelle fattispecie le cui peculiarità ne pongono più in evidenza l’esigenza di riconoscere e rispettare i diritti altrui attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge. Ma poi, sempre con maggiore frequenza, in un ambito generale per la necessaria continuità e certezza che, anche nei sistemi giuridici codificati, sussiste e deve sussistere tra le varie soluzioni delle singole fattispecie. Il valore del precedente che, anche in un sistema codificato finisce o può finire per avere la soluzione di una singola fattispecie, pur sempre considerata e risolta dall’operatore del diritto come una fattispecie singolare, la cui soluzione tende perciò necessariamente ad ottenere valore più generale.

6. L’equità ed il risarcimento del danno non patrimoniale

 Una applicazione del principio esposto al capitolo precedente è stata realizzata in questi ultimi anni: si tratta dell’estensione dell’ambito di applicazione del c.d. danno morale. Questa apertura è stata costruita mattone su mattone dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Giova, però, precisare che si è verificata una Babele di termini e di concetti nei quali non è facile orientarsi. Così come i costruttori della torre di Babele, arrivati ad un certo punto, non si capirono più tra loro (Gn, 11, 1-9), allo stesso modo sta accadendo per il concetto, il contenuto ed i limiti del danno morale, che sembra si sia disintegrato come l’atomo generando una reazione a catena, non più, se non difficilmente, controllabile[42].

Il legislatore non offre i criteri per la valutazione dei danni extracontrattuali, dato che l’art. 2056 codice civile rinvia per relationem agli artt. 1223, 1226 e 1227 cod. civ. e quindi al danno patrimoniale contrattuale; tuttavia il secondo comma dell’art. 2056 cod. civ. pone una limitazione ad una delle componenti che determinano l’ammontare della liquidazione cioè il lucro cessante, che è valutato con equo apprezzamento secondo le circostanze del caso.

Rientra nel genus danno morale il c.d. danno biologico che è una figura creata dalla giurisprudenza ed è intesa come il pregiudizio alla salute che si somma al danno patrimoniale se dovuto.

Sul punto è intervenuto il giudice delle leggi che ha identificato il contenuto del danno alla salute con quello alla lesione dell’integrità psico-fisica del soggetto[43].

Il principio di equità è stato posto a fondamento dalla Corte di Cassazione nelle sentenze “gemelle”[44], che hanno escluso il risarcimento del danno non patrimoniale dai limiti di cui agli artt. 2059 cod. civ. e 185 cod. pen. quando vengono lesi valori della persona costituzionalmente garantiti, in tal caso trova applicazione il principio della liquidazione equitativa del danno non patrimoniale[45].

In particolare, in una fattispecie di danno conseguente l’uccisione di un congiunto della persona che agiva per il risarcimento, la S.C. ha riconosciuto la lesione di un interesse costituzionalmente protetto ed ha liquidato l’intero danno non patrimoniale anche con riferimento al pregiudizio ulteriore consistente nella permanente privazione della reciprocità affettiva propria del più stretto dei rapporti parentali.

In tale fattispecie al c.d. “danno morale soggettivo”, il cui ambito resta quello proprio della mera sofferenza psichica e deve essere a questa esclusivamente ricondotto (art. 2059 cod. civ.), deve aggiungersi l’ulteriore pregiudizio strettamente connesso al peggioramento della qualità della vita del superstite, privato, per l’appunto, della relazione personale ed affettiva con la persona defunta[46].

Più specificatamente la interpretazione che le due sentenze danno dell’art. 2059 cod. civ. tende a ricomprendere nella norma, intesa quale contenitore, ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori relativi alla persona, e più analiticamente: il danno morale soggettivo, inteso come transitorio turbamento dello stato d’animo della vittima, nonché il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, tutelato dalla costituzione, all’integrità psico-fisica della persona, ed ancora il danno esistenziale, conseguenza della lesione di ulteriori interessi di livello costituzionale che appartengono alla essenza stessa della persona[47].

Il danno biologico o danno alla salute è, quindi, inteso come lesione alla integrità psico-fisica della persona. Tale categoria di danno si distingue in maniera chiara e netta dalla lesione alla vita di relazione, dal danno morale, la cui liquidazione è affidata all’apprezzamento discrezionale ed equitativo del giudice, e da qualsiasi altro danno di natura patrimoniale tale da influire sulla capacità di guadagno e di lavoro. Per danno alla vita di relazione si intende quello che il soggetto subisce in conseguenza di una lesione della sua integrità psicofisica o della salute e che si concretizza nella diminuzione delle possibilità del soggetto di esplicare in maniera normale e naturale la propria personalità nel contesto sociale. Si tratta di un profilo peculiare del danno alla salute. Tale danno all’integrità psicofisica e alla salute deve essere risarcito e ciò a prescindere dai suoi eventuali esiti negativi di natura patrimoniale. Conseguentemente viene meno l’esigenza di ipotizzare il danno alla vita di relazione quale autonoma voce di danno.

Per completare l’excursus, la Corte Costituzionale con la sentenza 11 luglio 2003 n° 233[48], e quindi appena successiva alle sentenze “gemelle”, e che si ricollega ontologicamente alle stesse, offre una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito all’astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui in sede civile la colpa dell’autore del fatto risulta da una presunzione di legge.

Il rinvio all’equità non è soltanto previsto dal codice civile, ma è un rinvio che è operato dal legislatore anche per regolare, ad esempio, i giudizi avanti il giudice di pace, che decide secondo equità le cause il cui valore non eccede i due milioni, di (ex) lire, ora € 1.100,00 (art. 113, 2° comma, c.p.c.). Le controversie sono decise applicando la legge, la quale, tuttavia, ammette che il giudice possa giudicare “secondo equità” nelle cause di valore modesto e in quelle riguardanti diritti disponibili, quando le parti ne facciano concorde richieste (artt. 113, 114, 822 cod. proc. civ.)

Con la sentenza di accoglimento n. 206 del 14 luglio 2004 (in G.U. n. 27 del 2004), che rientra in quella categoria di decisioni definite additive integrative di carattere autoapplicative, la Corte Costituzionale ha dichiarato “la illegittimità costituzionale dell’art. 113, 2° comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede che il giudice di pace debba osservare i principi informatori della materia”, per violazione degli artt. 24 e 101, 2° comma, Cost.

Nella parte dispositiva la Corte riscrive testualmente quanto viene aggiunto al testo di legge, ritenuto non conforme alla costituzione, per renderlo conforme ad essa.

Orbene l’equità interessa e coinvolge anche il momento della qualificazione del rapporto nonché quello della valutazione delle conseguenze giuridiche[49], sorge, quindi, il problema di dare contenuto alla espressione “principi informatori della materia”.

I principi devono intendersi quelli giuridici vale a dire quelle norme esplicite o implicite dell’ordinamento giuridico che ne esprimono i valori fondamentali e che formano o indirizzano la disciplina.

Ne consegue che i principi regolatori sono quelli che si desumono dal complesso delle norme che, in concreto, disciplinano una determinata materia, che sono ricavabili, in via di astrazione, dalle specifiche norme dettate che regolano la materia e non devono contrastare con i principi ai quali si è ispirato il legislatore quando ha regolato una determinata disciplina.

Sul punto il Giudice delle leggi, nella citata sentenza ha affermato che la funzione che può riconoscersi alla giurisdizione di equità: “è quella di individuare l’eventuale regola di giudizio non scritta che, con riferimento al caso concreto, consente una soluzione della controversia più adeguata alle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta, alla stregua, tuttavia, dei medesimi principi cui si ispira la disciplina positiva; principi che non potrebbero essere posti in discussione dal giudicante, pena lo sconfinamento nell’arbitrio, attraverso una contrapposizione con le proprie categorie soggettive di equità e ragionevolezza”, atteso che il sistema è caratterizzato dal principio di legalità che discende ed è strettamente collegato a quello di costituzionalità.

Ne consegue che nell’attuare il principio di equità il criterio di valutazione da applicare alla fattispecie deve fare riferimento ai medesimi principi ai quali si ispira la disciplina positiva, e quindi a quelli fatti propri dal legislatore nel dettare le regole di quella determinata materia[50].

Tornando al concetto di danno biologico il suo contenuto è stato definito dall’art. 5 secondo comma legge 5 marzo 2000, sia pure con riferimento alla responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli, come “la lesione dell’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale e le prestazioni per il ristoro di tale danno sono determinate in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”. Stessa definizione è adottata dall’art. 13 d. lgs. 38 del 2000, modificato dal d. lgs. 202 del 2001, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali[51].

Si è detto che il contenuto del danno morale ha assunto differenti connotazioni e molteplici significati. Si parla di danno biologico, con espressione ignota al codice civile, inteso quale lesione dell’integrità psico-fisica della persona e che sia suscettibile di accertamento medico-legale; di danno morale soggettivo che si identifica con le sofferenze ed i patemi di animo subiti dalla persona e che sono l’effetto dell’illecito; di danno esistenziale quale ripercussione negativa, che attiene ai modi di essere di un individuo, causata dalla lesione di una posizione giuridica soggettiva che trova tutela nell’ordinamento giuridico e che produce una menomazione della personalità del soggetto[52].

Alle volte il danno biologico viene denominato anche danno alla salute[53].

Orbene le espressioni sono molteplici ed in divenire; si parla anche di “danno morale affettivo” come categoria autonoma.

Tuttavia né la dottrina, né la giurisprudenza danno unità di contenuto alle definizioni, generando problemi di uniformità[54].

Certo è che la contemporanea liquidazione delle varie tipologie di danno genera difficoltà interpretative anche perché esiste il pericolo dell’artificiosa duplicazione degli importi per i quali il responsabile è tenuto al risarcimento[55].

7. Il problema legislativo ed i caratteri della interpretazione

 È infondato negare la funzione creativa della interpretazione, così come è vano negare quei limiti che si vogliono indicare quando si parla di “dichiaratività”, che è il criterio previsto dal 1° co. dell’art. 12 disp. prel. cod. civ. e che consiste nella determinazione, sia sotto il profilo grammaticale che sotto quello lessicale, del significato del testo legislativo in base al suo valore semantico secondo l’uso linguistico generale[56].

Questo carattere dell’interpretazione è evidente quando si fa ricorso alla analogia, in particolare a quei concetti che fondano la loro ragione sulla base dei principi che possono farsi risalire alla coscienza sociale: buona fede, diligenza del buon padre di famiglia, equità, buon costume, ordine pubblico, correttezza, uso normale. Si tratta di quei concetti che ROSCOE POUND definì i legal standars of conduct e che possono intendersi quali aperture, finestre, del sistema giuridico[57].

La conoscenza e l’apertura nella cultura giuridica Italiana verso Roscoe Pound e altri studiosi della sociologia giuridica di lingua inglese: Talcott Parsons, Lawrence Friedman, Julius Stone, risale agli anni sessanta[58].

Il fondamento di una sociologia giuridica di marca Italiana si deve a Renato Treves[59].

Sotto il profilo del contenuto e della metodologia la disciplina della sociologia giuridica è differente dal diritto privato inteso quale il complesso di norme che regola i rapporti con i consociati, nonchè “il diritto comune” delle persone e della economia[60].

Nell’ambito della sociologia giuridica rientrano differenti complessi di norme che corrispondono a diversi fondamentali aspetti di disciplina. Contenuto dell’indagine della sociologia giuridica è la società e la sua organizzazione giuridica, la distribuzione del potere e dei ruoli, la cultura dei movimenti sociali, e, più in generale, una critica del diritto sotto il profilo sociale.

La disciplina tende ad individuare e a focalizzare il complesso dei rapporti tra il diritto nelle sue varie accezioni e le altre componenti che operano in ogni complesso di persone[61].

I problemi giuridici oggi sono diversi e più complessi di quelli del passato, attesa la nuova dimensione del diritto ormai priva di tempo e di spazio[62]. Le coordinate dell’hic et nunc da applicare alla fattispecie non sono più idonee e sufficienti.

Il diritto comunitario non è idoneo a risolvere le problematiche aperte dai nuovi aspetti della globalizzazione, che, come l’araba fenicia, risorge dalle sue ceneri. Basti porre l’attenzione alla globalizzazione dell’impero romano e quindi del diritto romano e successivamente del diritto comune nell’età di mezzo[63], ed alla lex mercatoria[64].

L’interpretazione deve essere conforme a giustizia, ed in armonia con il diritto naturale e l’equità, ed ancora deve contemperare contrapposti interessi rilevanti secondo la coscienza sociale anche se non lo sono per la norma giuridica e, come detto, deve essere conforme ad equità. Concetto questo di carattere generale al quale occorre ispirarsi e che è richiamato specificatamente dal legislatore: il contratto stipulato a condizioni inique o divenuto eccessivamente oneroso è ricondotto ad equità (artt. 1450, 1467, 1468 cod. civ.), l’equa indennità (art. 2047, 2° co., cod. civ.). Ed ancora l’equità è prevista quale fonte di integrazione del contratto (art. 1374 cod. civ.), intesa quale criterio generale di determinazione di quei contenuti che non vengono previsti dalle parti, svolgendo una funzione meramente suppletiva, nel senso che colma le lacune non coperte dagli usi o da altre legittime fonti, ma non è un canone interpretativo del contratto già completo in tutti i suoi elementi.

L’equità opera quale criterio per il contemperamento dei diversi interessi delle parti (art. 1371 cod. civ.) ma, si badi, l’equità non rientra tra le fonti del diritto atteso che non è essa stessa una norma, ma offre solo un criterio di soluzione nel contrasto tra le parti[65].

L’interpretazione è in divenire ed in continua evoluzione dovendosi adattare all’evolversi dei valori sociali nel tempo. L’interprete deve accertare se la norma non abbia maturato un altro e nuovo significato diverso dal contesto sociale nel quale venne promulgata.

È rimesso alla sensibilità dell’interprete individuare quali nuove esigenze la legge può soddisfare nelle mutate condizioni temporali, sociali, di vita, sempre col rispetto del senso proprio delle sue parole.

Ciò, ovviamente, può avvenire allorquando la norma rispetti i criteri della genericità ed astrattezza e con maggiore difficoltà nella c.d. legislazione di emergenza alla quale troppo spesso ha fatto e fa ricorso il legislatore.

Tuttavia l’interpretazione deve armonizzarsi alle soluzioni anteriori, deve costituire un ulteriore progresso tecnico evolutivo, atteso che il diritto deve adattarsi continuamente pur rimanendo certo.

Da questo elemento di certezza e di eguaglianza giuridica discende la perenne necessità di “astrazione” del diritto, ossia della necessità di tenere conto dell’elemento tipico di ciascuna fattispecie, che non può essere presa in esame, se non modellandosi entro schemi tipici.

Interpretazione che deve essere “giusta”, quindi nella “misura” della legge che trova un suo completamento con i dati del diritto naturale e dell’equità, mantenendo un carattere dichiarativo anche nel suo aspetto creatore di fronte al diritto positivo.

La interpretazione deve anche realizzare l’esigenza di certezza e di sicurezza giuridica vale a dire di uniformità nell’applicazione delle norme, che deve essere univoca, senza variazioni in tutte le fattispecie aventi la stessa tipologia.

Principio, questo, fondamentale di qualsiasi sistema giuridico inteso come l’insieme di norme reciprocamente interconnesse che hanno relazioni di significato di tipo deduttivo e che reagiscono ed evolvono con proprie leggi generali per la realizzazione del principio di conformità al dettato normativo, base di qualunque sistema e sostegno della legalità intesa quale conformità alle leggi positive ed osservanza di esse nella loro determinatezza[66].

L’interprete deve applicare la legge anche se la ritiene ingiusta o per altra ragione. Fra le possibili interpretazioni di una legge ingiusta l’interprete deve scegliere quella meno ingiusta.

Da qui la massima risalente ad Ulpiano dura lex sed lex: la legge deve essere rispettata ed osservata, anche quando sembra (o è) troppo dura.

Giova, tuttavia, ricordare altra massima secondo cui il diritto (ius), portato alle estreme conseguenze, si trasforma nel suo contrario: l’ingiustizia (iniuria): summum ius, summa iniuria[67].

Benvero l’applicazione della legge in modo eccessivamente rigoroso può portare alla ingiustizia in quanto non tiene conto delle differenze oggettive che esistono tra le fattispecie. Occorre quindi contemperare l’esigenza del principio di giustizia con il criterio di equità.

La forza espansiva di dare tutela alle fattispecie che crea il divenire ed il continuo mutamento delle situazioni, economiche e sociali (c.d. diritto vivente), ha portato ad una funzione evolutiva interpretativa della giurisprudenza.

A quanto già sopra esposto, a proposito del danno morale, va aggiunto quanto avvenuto in tema di associazioni non riconosciute ed al loro riconoscimento come persone giuridiche e quindi della soggettività a seguito della sentenza del S.C. 16 novembre 1976 n° 4252[68] che ha “inaugurato la pista che conduce al diritto delle formazioni sociali, i cui connotati normativi attengono al diritto costituzionale prima che al diritto civile”[69].

Sembra che il concetto di equità possa farsi ricomprendere in quello di giustizia in senso giuridico che ha altro contenuto ontologico rispetto, ad esempio, alla giustizia sociale; ne consegue che l’equità realizza il fine di temperare la rigidità della norma.

Come già detto l’equità non è fonte di diritto ma è un criterio di applicazione, ne consegue che la violazione della stessa non costituisce motivo di ricorso per cassazione (art. 829 2° comma cod. proc. civ.), e quando gli arbitri non sono autorizzati a pronunciare secondo equità, resta preclusa, ai sensi della norma citata, l’impugnazione per nullità del lodo sotto il profilo della violazione delle norme sostanziali o, in generale, per errores in iudicando.

L’equità opera nella creazione del dato normativo ed in ciò esaurisce la sua funzione.

Il principio di equità trova applicazione quando la flessibilità ovvero la elasticità della norma lo consentono: per esempio art. 844, 1° comma, 1817, 2030, 2° comma, cod. civ., che attribuiscono al giudice veri e propri poteri discrezionali.

Se la norma non lo prevede il giudice non può fare ricorso al principio di equità, diversamente commetterebbe violazione dell’art. 360 n° 3 cod. proc. civ. sotto il profilo della violazione e falsa applicazione delle norme di diritto.

Nei paesi di common law l’equità, come principio giuridico, assume una valenza particolare perché permette al giudice di applicare per taluni istituti principi giuridici diversi da quelli risultanti dal diritto comune, ne consegue, ancora, che l’equità crea un ordinamento giuridico separato e parallelo a quello che è il common law.

L’equo contemperamento di cui all’art. 1371 cod. civ., riferito al negozio oscuro, sancisce il principio di equità in materia di interpretazione contrattuale e va inteso come l’equilibrio degli interessi e l’eguaglianza di trattamento da conseguirsi nei rapporti tra le parti.

Se il danno accertato non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione fondata su indizi o apparenze probabili, in via equitativa, ovvero ex bono et aequo (art. 1226 cod. civ.). In tal caso il ricorso al criterio dell’equità sopperisce alla impossibilità o alla parziale impossibilità di provare l’ammontare preciso del danno (per es. art. 2736 n. 2 cod. civ.).

Per il principio di conservazione del contratto, l’azione di rescissione, anche dopo la sua proposizione, può essere neutralizzata mediante l’offerta di modificazione del contratto che sia sufficiente per ricondurlo ad equità (art. 1450 cod. civ.), con una dichiarazione di natura negoziale che costituisce l’esercizio di un diritto potestativo[70].

Nei contratti con prestazioni corrispettive, sia ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita, quando, a causa di un radicale mutamento della situazione, una prestazione è divenuta eccessivamente onerosa rispetto a quanto fosse prevedibile al momento della conclusione del contratto, a causa di eventi esterni alla volontà del debitore che devono essere altresì straordinari ed imprevedibili e che alterano l’equilibrio contrattuale determinando, appunto, uno squilibrio nel rapporto tra le prestazioni, la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto (art. 1467 cod. civ.)[71].

Per avvenimenti straordinari ed imprevedibili devono intendersi quelli che alterano l’equilibrio determinando una sproporzione nel rapporto che intercorre come l’insieme degli obblighi e di diritti tra le parti, producendo l’effetto, accertato il nesso di causalità, di rendere eccessivamente onerosa una delle prestazioni.

Si tratta di ipotesi di integrazione equitativa della fattispecie nelle quali possono farsi rientrare anche: la determinazione dell’oggetto del contratto da parte di un terzo (1349 cod. civ.), l’integrazione del contratto (art. 1374 cod. civ.), l’annullamento del contratto per violenza diretta contro terzi (art. 1436, 2° co., cod. civ.), il rifiuto in buona fede di esecuzione del contratto (art. 1460, 2° co., cod. civ.), la durata del periodo di ferie retribuite (art. 2109, 2° co., cod. civ.), le modalità del recesso dal rapporto di lavoro (art. 2118, 1° co., cod. civ.).

Come sopra esposto la norma sulla valutazione del danno da atto illecito (art. 2056, 1° co., cod. civ.) rinvia per relationem agli artt. 1223, 1226 e 1227 cod. civ., ne consegue che il criterio per misurare l’illecito extra contrattuale è quello applicabile al comportamento del buon padre di famiglia, cioè della persona di normale diligenza. Trattasi di una diligenza improntata al canone della normalità.

È opportuno tenere presente che il mancato guadagno, c.d. lucro cessante, quale elemento del quantum debeatur, deve essere valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso, vale a dire che i criteri non devono essere improntati alla rigidità, bensì alla equità per una liquidazione ex bono et aequo.

Giova rilevare che, a differenza di quanto dispone l’art. 1226 cod. civ. in ordine al criterio di valutazione equitativa del risarcimento del danno contrattuale, in tema di risarcimento del danno aquiliano, la norma rinvia all’equità del giudice soltanto per la quantificazione del lucro cessante, mentre per l’entità del danno emergente esige una rigorosa valutazione, salvo che manchi la possibilità di farla nel preciso ammontare e sulla base degli elementi e degli accertamenti richiesti dalla parte.

L’ipotesi di conflitto tra le disposizioni di legge da un lato ed i principi della scienza giuridica dall’altro. La funzione della interpretazione

 La tecnica dell’ermeneutica costituisce il complesso di regole che ha un ruolo preminente nello svolgimento della evoluzione giuridica per via interpretativa.

La tecnica è rivolta alla creazione di norme e principi di carattere generale destinati a risolvere il caso preso in esame per inquadrarlo e farlo rientrare nel sistema costituito, da qui l’esigenza di assicurare l’armonia logica di ogni soluzione nel sistema vigente.

Il sillogismo è costituito da tre proposizioni: la norma che costituisce la premessa maggiore, la fattispecie in esame, che costituisce la premessa minore e la conclusione dell’interprete che discende dalla premessa secondo i criteri della logica.

Il processo logico deduttivo dell’interprete si basa sulla necessità di fare discendere la soluzione della fattispecie da una norma di carattere generale, atteso che la stessa va considerata in modo schematico ed astratto e nella sua tipicità.

L’interpretazione giuridica usa i metodi della logica formale e scientifica, che studia i vari modi, i vari tipi, le forme specifiche del pensato in quanto tale, o, come viene anche intesa, “lo studio dei concetti e ragionamenti considerati nelle forme in cui sono enunciati allo scopo di determinare in abstracto la loro proprietà, la loro validità, le loro relazioni, e le condizioni sotto le quali si implicano o si escludono tra loro” [72].

Si tratta di costruire concetti giuridici validi per la scienza giuridica cioè per un dato sistema scientifico unitario ed omogeneo, e in armonia coi principi della tecnica di tale sistema, sulla base del dato dell’esperienza comune e generale; “non già di travasare nel sistema della scienza giuridica, dei concetti tolti di peso da altri sistemi, ugualmente unitari ed omogenei, che rispetto a quello della scienza giuridica sono del tutto autonomi”[73].

La necessità di assicurare l’armonia logica delle soluzioni nel sistema giuridico precostituito impone all’azione dell’interprete un limite nei confronti del legislatore e tale necessità segna i limiti dell’interpretazione.

L’interprete è sottoposto alla legalità, ne consegue che l’interpretazione e l’applicazione delle norme del sistema giuridico devono rimanere distinte dall’attività politica che crea e riforma il diritto vigente, anche se la politica, cioè l’arte di creare gli stati e gli ordinamenti giuridici che ne sono gli strumenti operativi, è presente sempre in qualsiasi forma di interpretazione, quali che siano i metodi per essa impegnati[74].

La interpretazione è finalizzata all’applicazione uniforme della norma in tutte le fattispecie e a chiunque sia il soggetto che vuole vedere attuato il proprio interesse per la realizzazione della giustizia.

L’interpretazione contribuisce all’adattamento della norma e al suo sviluppo, sempre nell’ambito della continuità, armonizzando le nuove soluzioni entro e nei limiti del sistema vigente.

Se, invece, gli interpreti non si scostano dalla interpretazione letterale, viene meno lo sviluppo del diritto e la possibilità di risolvere i problemi sociali.

La certezza giuridica e la garanzia della libertà individuale sono anche il risultato della tecnica della interpretazione che è diretta a realizzare la continuità e la armonizzazione. Il diritto non è la norma, cioè il diritto formalizzato, che ne è soltanto una parte, né il sistema (costruzione, fittizia e strumentale), “bensì l’esperienza giuridica, il diritto nel suo processo di attuazione, di cui norma e sistema rappresentano momenti isolati per ragioni, più che scientifiche, di comodità, di studio, di ricordo”[75].

Il giurista deve interpretare ed applicare in maniera uniforme la norma in tutti i casi. L’antinomia tra la certezza giuridica e la garanzia della libertà individuale può essere risolta dalla stessa teoria dell’interpretazione che è diretta a conciliare la funzione creativa con quella della manifestazione.

Conseguentemente occorre determinare i limiti e i criteri per lo sviluppo ed il completamento del diritto per mezzo della interpretazione, ed ancora occorre conciliare il continuo adattamento di un preesistente sistema normativo con la continuità e l’armonia del divenire, e quindi con la continuità nel tempo e nello spazio.

Il sistema giuridico esige capacità di adeguamento ai tempi, alle circostanze, di adattabilità ai mutamenti, ed un certo grado di rigidità. La rispondenza ai propri fini dipende anche da un equilibrio derivante dal contemperamento delle due opposte esigenze che mutano nel tempo e che dipendono dai differenti contesti storici, politici, economici e sociali, tuttavia la elasticità e la rigidità devono essere sempre presenti ed in equilibrio.

L’insieme delle norme relative all’istituto della interpretazione costituisce, sotto i due profili della creatività e della rappresentazione, il punto di equilibrio di queste due esigenze.

Sotto il profilo giuridico l’interpretazione precede l’applicazione pratica alla fattispecie in esame e “l’indeterminazione è la porta attraverso la quale il flusso storico penetra continuamente nel sistema normativo”[76].

La indeterminatezza è un carattere ineliminabile, prevista e voluta dal legislatore, il quale, in tal modo, lascia spazio al giurista perché possa specificare o determinare il contenuto della norma e, conseguentemente, al giudice che diviene il punto di incontro apparentemente rigido ed immobile di concetti elaborati dalla scienza ed il perenne flusso mobile della storia. Nel lavoro intellettuale del giudice si è vista un’attività sottilmente creativa, una continua, immediata invenzione[77].

Il giudice dovrà decidere impegnando la sua personalità e la sua sensibilità: equità, potere discrezionale, libertà di apprezzamento, libero convincimento[78].

Si realizza così un sistema elastico che, appunto perciò, può avere applicazione nel tempo[79].

Alcuni profili di tecnica interpretativa

Dal punto di vista del diritto la tecnica giuridica può definirsi come l’insieme delle norme e dei principi che dirigono la pratica della attività interpretativa. Si tratta di un complesso di procedimenti ben definiti e destinati a produrre determinati risultati utili. La tecnica, così intesa, costituisce un mezzo per il progresso e lo sviluppo del sistema giuridico.

Più in particolare la tecnica interpretativa assume differenti significati: da un lato, ed in senso ampio, va intesa come il sistema dei mezzi di interpretazione ed applicazione del diritto, e come tale è un elemento costitutivo dell’elaborazione scientifica; in senso più specifico va intesa come il processo di interpretazione e di applicazione della costruzione giuridica alla fattispecie.

La tecnica è il mezzo per raggiungere il risultato della interpretazione: l’applicazione della regola astratta al caso concreto.

Come sopra esposto, nella ricerca della soluzione del caso concreto, l’interprete non può considerarlo come un caso singolo, di contro deve essere esaminato come una fattispecie tipica da prendere in esame nelle sue caratteristiche peculiari. Ne consegue che la soluzione deve coordinarsi e rientrare in un principio di carattere generale della costruzione giuridica, identica per tutte le fattispecie e aventi medesimo contenuto.

Il momento finale del processo di individualizzazione della norma è la sentenza perché è allora che l’astratto dato normativo si concreta in un comando, ma nello stesso tempo la sentenza costituisce un momento iniziale dato che il caso concreto deve essere preso in esame come un caso tipico e, conseguentemente, risolto come tale.

Qualità peculiari, proprietà del diritto, intese sia come norma giuridica o consuetudinaria che come principio dottrinale, sono quelle di costituire una norma identica per tutti i casi della stessa specie, ne consegue che una delle caratteristiche è quella di coordinare ogni singolo caso ad una regola generale.

Questo perché il diritto si fonda sul principio di eguaglianza che ne costituisce la base immutabile nel tempo e nello spazio e che, in tal modo, viene legato all’idea stessa di giustizia.

La soluzione dell’interprete deve coordinarsi ad una norma generale fissata in precedenza, il suo compito è quello di conciliare questo requisito a quello della necessità di un continuo adattamento del diritto alle problematiche dovute al divenire, ai mutamenti imposti dalla vita, alle esigenze economiche e sociali.

Le leggi, come scrive IRTI: “dettate da occasioni effimere o da circostanze eccezionali si reiterano e rinvigoriscono, fino a organizzarsi nei testi unici o nei codici; al pari degli atti giuridici, che, mossi da interessi e bisogni dei singoli, si espandono e diffondono, fissandosi poi nella tipicità di schemi e modelli; così l’esprimersi degli individui, nella varietà degli scambi e dei commerci sociali, s’innalza all’oggettività della lingua” [80].

Il senso della norma si stacca dall’Autore del testo e vive di vita propria, come nel fenomeno naturale della nascita[81].

Il costante adattamento di un corpus juris precostituito a un continuo divenire di situazioni aventi giuridica rilevanza, impone che la interpretazione assuma varie prospettazioni: quella tradizionale, quella progressista o evolutiva ed impone, altresì, l’uso di differenti strumenti ermeneutici: la interpretazione letterale della norma, la ricerca del suo fine, ed ancora a considerazioni di armonia logico - sistematiche, ovvero sociologiche che esercitano la loro influenza nel determinare l’una o l’altra soluzione della fattispecie.

La consapevole e meditata preoccupazione di tenere presente il fine della norma può portare, talvolta, ad un ingiustificato arbitrio dell’interprete, ovvero ad un eccessivo rispetto delle intenzioni del legislatore, e ciò in contrasto con il significato obiettivo della norma.

Il diritto rappresenta quasi un punto di congiunzione tra la staticità dell’ordinamento ed una vita in perenne movimento: il punto di incontro tra il passato ed il presente che si proietta nel futuro.

A volere approfondire il profilo può dirsi che la molteplicità delle richieste di giustizia, nella varietà del divenire e del mutare della società, contribuisce a far si che si possa valutare l’applicazione del principio normativo al caso concreto che va, tuttavia, coordinato con il sistema prestabilito, in tal modo si potrà operare un consolidamento, che procede per gradi, dei risultati raggiunti dall’interpretazione e, conseguentemente, si può affermare che l’ordine giuridico non presenta lacune.

È con la interpretazione che l’ordinamento giuridico, al fine della sua applicazione, si presenta completo, né può adempiere alla sua funzione pratica se non per mezzo del suo continuo completamento ed adattamento.

In linea teorica ogni sistema giuridico deve (o, rectius, dovrebbe) essere unitario ed esente da contraddizioni, tuttavia nella realtà ogni sistema è frutto di spinte diverse, di tendenze anche contraddittorie, di compromessi politici.

La corretta interpretazione genera l’unità del sistema giuridico, la quale assolve anche al compito di fare rientrare in un sistema coerente, libero da contraddizioni, l’insieme dei dati normativi anche se gli stessi, per ragioni storiche o politiche, possano essere o sembrare differenti e contraddittori.

L’unità del sistema ha nella Costituzione la sua norma primaria che la regola e limita.

Atteso che la completezza dell’ordinamento giuridico costituisce il fine e non la premessa dell’interpretazione, ne consegue che la stessa assolve al compito di continuo completamento ed adattamento, e rappresenta un momento immanente e necessario della norma, dato che la stessa non può trovare applicazione senza, al tempo stesso, essere interpretata. Benvero non esiste disposizione, per quanto precisa e di sicura interpretazione letterale, che non lasci aperti i problemi nei cui riguardi la giurisprudenza esercita la sua funzione creatrice.

È quindi necessario il ricorso alla tecnica giurisdizionale dell’interpretazione, prima, e della applicazione alla fattispecie, poi, nell’ambito dell’ordinamento giuridico inteso quale il complesso delle norme che organizzano una determinata società riunita in un sistema unitario, stabile ed efficacie.

L’interprete è vincolato all’apparato formale dei fatti normativi, che pongono un limite al processo interpretativo; tuttavia questo rigore è una faccia della medaglia, l’altra faccia è la realtà sociale[82].

Occorre abbandonare la mera esegesi per attingere ai vertici della dogmatica, atteso che l’evoluzione della scienza giuridica va intesa come un momento della storia dell’umanità, uno dei momenti della storia del pensiero umano[83].

Alla interpretazione filologica e dottrinale del testo normativo (mera esegesi) deve far seguito lo studio del metodo scientifico in modo coerente e rigoroso, fondato sul complesso dei fondamenti teorici.

Per comprendere l’intento del legislatore, scolpito nel testo normativo, è necessario penetrare e comprendere il significato dei segni scritti, il loro contenuto tecnico nel contesto della espressione legislativa[84]. I segni scritti necessitano di una interpretazione organica con riferimento anche all’unità ed alla fedeltà ai principi dettati dal legislatore per l’interpretazione dei suoi testi, ma è necessario anche una interpretazione sistematica per evitare contraddizioni[85].

10. La funzione della costruzione logico-giuridica in rapporto al fenomeno della interpretazione

 Sotto il profilo scientifico la logica, intesa in senso tecnico, è uno strumento che studia i principi generali del pensiero valido e può definirsi come la scienza che ha la funzione di regolare e quindi è strumento di collocazione e disposizione ordinaria dei concetti.

Opera della logica è la sistematica intesa come il complesso dei fondamenti teorici e dei principi metodologici della scienza, dai quali deriva la teoria della classificazione.

Il criterio logico considera l’elemento normativo come un dato da sistemare e non come elemento di indagine. Il criterio logico attua la sistemazione scientifica, può servire alla valutazione degli schemi concettuali, ma non è un criterio di valutazione del dato positivo[86].

Essendo la sistematica opera della logica, occorre valutare il criterio dei concetti tecnici, considerati nel loro significato e nelle reciproche interferenze e connessioni, così la logica spiega e chiarisce la coerenza dei principi relativi ai fenomeni giuridici che sono coordinati in sistema, sia se gli stessi sono normali ovvero irregolari.

Criterio logico primario è quello della coerenza e del rigore di corrispondenza tra la premessa, intesa quale principio di ragionamento, e la proposizione finale del sillogismo consecutiva alle due premesse.

Le costruzioni logico-giuridiche assolvono ad una duplice funzione, essendo al contempo necessarie e strumentali. Esse assolvono alla finalità di comprendere ed ordinare le norme sistematicamente, in relazione al diversificato comportamento umano, in modo da risolvere i molteplici fatti secondo un sistema logicamente coordinato.

In questa architettura gioca la sua funzione necessaria ed essenziale la ricerca dei principi teorici degli istituti giuridici – la dogmatica – e la loro elaborazione per giungere ai principi generali che regolano l’ordinamento giuridico. Le norme costituiscono il punto di partenza della elaborazione dei concetti del diritto positivo, in quanto veri e propri dogmi. Funzione della dogmatica, che affonda le sue radici nella tradizione romanistica, è quella della creazione di un linguaggio giuridico[87].

La costruzione dogmatica ha un valore che si rivolge alla pratica e che è fondato sulla pratica, al contempo svolge la funzione di scoprire nuovi fatti ed elaborare teorie, per chiarire il significato della norma, funzione questa di indagine scientifica, per conoscerne il contenuto, intenderla ed applicarla[88].

Le costruzioni logico-giuridiche rendono certa la continuità del diritto nelle sue molteplici e mutevoli applicazioni, svolgendo, in tal modo, una funzione preziosa ed essenziale nel tentativo di approssimarsi il più possibile alla certezza del diritto e per realizzarne l’uniformità dell’applicazione, attività questa necessaria ed indispensabile. Il giurista deve mantenersi lontano ed equidistante dai due poli estremi: da un lato l’eccessivo rigore formalistico della lettera della legge e, dall’altro, l’equità che può degenerare in arbitrio.

Basti porre attenzione all’atto illecito che va considerato sia sotto l’aspetto oggettivo: la lesione di un diritto soggettivo assoluto o, comunque, di una situazione giuridica soggettiva tutelata, che sotto quello soggettivo: dolo, colpa, distinguendo la colpa specifica, vale a dire la violazione di una regola espressa, dalla colpa generica, che si realizza quando non vi è l’espressa previsione di una regola della quale si assume la violazione, la diligentia in abstracto e in concreto, la diligenza del buon padre di famiglia.

Quando il diritto si avvale di concetti mutuati da altre discipline, come per esempio l’economia, la sociologia, li trasforma nella struttura e nella funzione in concetti giuridici attribuendo un contenuto che non è più quello peculiare della disciplina di provenienza (l’economia, la sociologia).

Questa autonomia è alla base dei principi specifici della logica giuridica formale.

Lo studioso del diritto per raggiungere i suoi fini di maggiore giustizia e certezza deve elaborare criteri sempre più tecnici e precisi e deve costantemente aggiornarsi alle nuove esigenze ed alle nuove problematiche.

Le costruzioni dogmatiche costituiscono uno degli strumenti necessari per giudicare l’eguaglianza e la diseguaglianza di specifiche situazioni, per stabilire ciò che va considerato come tipico nella fattispecie concreta, e quindi svolgono un ruolo determinante per realizzare il fine della uniformità e della giustizia nella applicazione della legge.

La coscienza umana non ha mai smarrito il suo originario orientamento pratico, indirizzato alla soluzione dei problemi della vita[89].

La soluzione di ogni problema sociale ha sempre un profilo, un aspetto giuridico perché si risolve per mezzo di leggi, sentenze, contratti, quindi utilizzando la tecnica giuridica e attraverso schemi giuridici.

Tra scienza e tecnica, tra sapere metodologico e sapere applicato, esiste un rapporto di necessaria correlazione in virtù del quale la prima offre alla seconda mezzi superiori di progresso e non infrequentemente riceve da essa il conforto della verifica empirica e suggestioni anticipatrici[90].

Il progresso scientifico, il perfezionamento della tecnica giuridica per raggiungere il fine della spiegazione del significato del testo normativo che può essere oscuro e fonte di dubbi, è collegato allo svolgimento storico. Il tecnicismo giuridico costituisce un progresso ed i concetti di tecnica giuridica, proprio perché strumenti relativi alle applicazioni e realizzazioni pratiche della disciplina giuridica, hanno una valenza autonoma.

La stessa metodologia ed il medesimo ragionamento sono applicabili al progresso della giurisprudenza, che è indipendente da quello, ben più rilevante, del diritto.

Ogni istituto giuridico è diretto ad un fine, a soddisfare una esigenza che assume rilevanza legislativa, la tecnica giuridica è il mezzo per realizzare il fine.

Responsabilità precontrattuale, contrattuale ed extracontrattuale, pubblicità, prescrizione e decadenza, nullità, nullità relativa, annullabilità, rescissione, risoluzione del contratto, danno nelle obbligazioni pecuniarie e oscillazione del potere di acquisto della moneta sono strumenti giuridici diretti alla tutela delle parti: creditore e debitore, alla tutela di terzi, alla certezza dei rapporti giuridici, alla diminuzione dei rischi nelle obbligazioni pecuniari.

Sono strumenti giuridici strettamente collegati al problema della circolazione, che contemperano le posizioni delle parti nel sinallagma contrattuale, incrementano gli scambi, le iniziative private, misurano, valutano e regolano i valori equilibrando i sacrifici conseguenti all’adozione della misura del contemperamento delle opposte esigenze.

Gli istituti giuridici devono essere tecnicamente coordinati per realizzare il loro fine. Facile a dirsi, ma per realizzare la interpretazione occorre muoversi tra due scogli: Scilla, vale a dire ritenere che la norma possa risolvere qualunque problema sociale per il fatto stesso che è stata emanata, dimenticando che la norma detta regole di comportamento, impone doveri, la sua osservanza non è automatica e la sua attuazione impone una struttura ed ha dei costi, e Cariddi, ritenere cioè che si può trascurare il tecnicismo giuridico e confidare nei fattori extragiuridici, dimenticando la rilevanza del diritto nella regolamentazione della condotta umana, e aprendo, così, la strada all’arbitrio che si sostituisce al diritto.

11. L’orientamento politico legislativo come criterio di interpretazione e la revisione degli schemi concettuali tradizionali

Le costruzioni giuridiche sono strumenti di soluzione delle fattispecie che si presentano all’esame del giurista (studioso, giudice, storico) e non rimangono del tutto indipendenti dall’orientamento generale dell’interprete. Qualunque operazione di sistematica giuridica è realizzabile solo quando le molteplici disposizioni sono ordinate secondo la loro maggiore o minore generalità e la loro gerarchia.

La scienza giuridica, quale è da noi tradizionalmente intesa, opera attraverso schemi formali e categorie astratte, ricavando schemi e categorie dal complesso del vigente ordinamento.

L’introduzione nel nostro ordinamento positivo di una nuova norma e, più ancora, di un nuovo complesso di norme, pone all’interprete il problema di inquadrare la nuova norma o il nuovo complesso di norme negli schemi e nelle categorie preformati sul precedente sistema normativo; o di modificare quegli schemi e quelle categorie; o addirittura di creare nuovi schemi e nuove categorie. La scelta sarà nell’un senso o nell’altro a secondo che l’inquadramento della nuova normativa nei preesistenti schemi e nelle preesistenti categorie riesca oppur no ad esprimere tutto il contenuto delle nuove norme[91].

Naturalmente la modifica di categorie e schemi tradizionali va fatta con estrema cautela per le inevitabili ripercussioni sulla elaborazione tradizionale dell’intero sistema, ed è necessario che i concetti economici dai quali ha preso le mosse il legislatore non debbano costituire preconcetti giuridici per l’interprete.

Ma vi è ancora un’altra osservazione da fare in tema di interpretazione delle norme del codice e delle varie leggi in generale. Le norme di ermeneutica legale consentono, entro certi limiti, pur restandone ferma la lettera, il progressivo adattamento delle norme di diritto scritto ai nuovi indirizzi sociali e giuridici. La <<intenzione del legislatore>>, che l’art. 12 delle preleggi impone all’interprete di ricercare, non è la volontà di chi formulò la legge, ma è la volontà statuale quale si è obbiettivata nella legge e quale risulta nel momento in cui la legge deve essere interpretata ed attuata. È – sempre entro i limiti consentiti dalle espressioni adoperate – la volontà statuale attuale. Non quella che ha determinato la nascita della norma, ma quella che ne consente la conservazione[92].

Ciò importa che le norme del codice vanno interpretate tenendo presenti sia le norme delle leggi speciali, che, vigenti al momento della emanazione del codice, hanno potuto influenzare i redattori del codice stesso, sia le norme della legislazione successiva al codice, in quanto non contrastanti con le espressioni usate dal codice.

Si aggiunga che i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, che l’art. 12, 2° comma, delle preleggi pone a base della analogia juris, vanno desunti dal complesso della legislazione e sono, quindi, mutevoli col variare di tale legislazione.

Quei principi vanno desunti, altresì, secondo le migliori dottrine, dall’orientamento politico-legislativo statuale[93], anche se ancora non completamente precisato e definito in norme di diritto positivo[94]. Il rilievo tocca, in particolare, la influenza, nella interpretazione della legge, delle norme della Costituzione, che, sotto il cennato profilo della ricerca dei principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, presentano tutte eguale rilevanza, senza che possa distinguersi tra norme programmatiche e norme precettive, o tra norme precettive di immediata attuazione, e norme precettive di attuazione differita. Peraltro la Corte Costituzionale, sin dalla sua prima sentenza, ha negato ogni distinzione tra le norme costituzionali ritenendole tutte precettive.

La formulazione del codice vigente è tale, da consentire una notevole immediata ricettività ai principi della legislazione successiva ed a quelli desunti dalla Carta Costituzionale.

Quando si dice che il diritto massimo, cioè quello del proprietario, deve esercitarsi non solo entro i limiti, ma altresì con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico (art. 832), ovvero quando si dice che l’imprenditore deve uniformarsi nell’esercizio dell’impresa ai principi dell’ordinamento statuale e risponde verso lo Stato dell’indirizzo della produzione e degli scambi in conformità della legge (artt. 2088, 2596 cod. civ.), si pongono norme di contenuto elastico, variabile in funzione del variare delle norme, che vanno imponendo obblighi al proprietario o che vanno imponendo all’imprenditore determinati indirizzi produttivi o determinati indirizzi degli scambi.

Quelle che precedono sono due esemplificazioni che riguardano istituti rilevanti come la proprietà e l’impresa, ma le fattispecie sono molteplici.

La valutazione delle norme dipende dall’orientamento dell’interprete, ed è per questo che nella ermeneutica si riflettono gli orientamenti generali di una determinata epoca, di un determinato ambiente, di una scuola anziché di un’altra.

Ne consegue che concorreranno alla interpretazione considerazioni estranee alla pura argomentazione logico-formale e la soluzione interpretativa subirà gli effetti delle considerazioni che precedono.

Occorre acquisire la coscienza esatta di dette influenze, sì da poterle controllare e criticare per valutare meglio i problemi, le norme e le conseguenti soluzioni.

Gli esempi sono molteplici: basti porre attenzione alle soluzioni giurisprudenziali e alla evoluzione della dottrina in materia di responsabilità civile (artt. 2043, 2059, 2087 cod. civ.) con un ampliamento della responsabilità e con la sostituzione, talvolta, del concetto di rischio a quello di colpa.

Tale evoluzione sviluppa un orientamento che differisce da quello anteriormente adottato nel valutare la posizione del soggetto in relazione alle nuove esigenze sociali, ed è tale diverso orientamento della ricerca che porta ad una nuova interpretazione ed a nuove applicazioni di articoli di legge, non di meno rimasti immutati.

12. Evoluzione e crisi del Diritto del privato. La Costituzione e la tutela dei diritti fondamentali. Diritto pubblico e diritto privato. Diritto naturale e diritto positivo. Lo Status e gli Status.

 Le regole di ermeneutica rimangono ferme ed immutabili nel tempo e nello spazio, di fronte un divenire ed un mutamento della società, spesso non programmato, non programmabile e con previsioni che poi non si realizzano ovvero si realizzano in maniera parziale o difforme.

L’evoluzione economica e sociale non è prevedibile neppure a breve o medio termine. Il fenomeno assume proporzioni ancora più rilevanti a seguito di eventi straordinari come quelli bellici o di spinte sociali per la tutela delle nuove forme di estrinsecazione dei diritti della persona come singolo o nelle varie collettività (le nuove figure di status).

Non è compito dello studioso del diritto occuparsi di quello che potrà avvenire, fare ipotesi, formulare soluzioni, tuttavia può guardare indietro e cercare di interpretare gli avvenimenti decorsi per provare a darne unità, di cogliere i legami tra gli stessi, di riportare i dati normativi negli schemi formali, già precostituiti, ovvero di crearne nuovi in armonia con il sistema vigente.

È opportuno operare un breve, brevissimo excursus per cogliere e focalizzare alcuni fenomeni della realtà che hanno modificato ed innovato profondamente, e dalle basi, il sistema economico e sociale dell’età della codificazione.

La disamina è meramente indicativa e, ovviamente, minimalista, ed ha lo scopo di mettere in luce che di fronte alla immutabilità delle regole interpretative la società muta e si evolve in maniera talora esponenziale oltre che, e questo è un fenomeno recente, per usare un termine attuale ed abusato, in maniera globale.

Nel XIX secolo il diritto privato trovava solenne consacrazione nella codificazione napoleonica e nelle successive codificazioni degli altri paesi dell’Europa continentale, largamente influenzate dal codice napoleonico.

Nel codice napoleonico, che seguiva nel campo legislativo l’opera della rivoluzione francese e delle correnti illuministiche e giusnaturalistiche del XVIII secolo, il diritto privato venne concepito come diritto del privato, come tutela dei diritti fondamentali, che al singolo individuo l’ordinamento giuridico riconosce come a lui già spettanti per diritto di natura. Era l’impostazione che aveva già ispirato in alcuni Stati, nel 1700, le riforme del c.d. assolutismo illuminato e che appariva chiara nell’art. 1 del progetto preliminare per il codice civile francese: <<esiste un diritto universale e immutabile, fonte di tutte le leggi positive: non è altro che la ragione naturale in quanto essa governa tutti gli uomini>>.

Il soggetto stava al centro della considerazione legislativa (soggetto inteso essenzialmente come singolo individuo, come persona fisica).

Il diritto fondamentale del privato, che si voleva tutelare, era il diritto di libertà e quella tutela si perseguiva fondamentalmente con due istituti, che costituirono i due fulcri delle codificazioni dell’Europa continentale, e cioè con l’istituto della proprietà e col contratto. Il soggetto nella proprietà esplica la sua personalità, col contratto esercita la sua libertà.

La proprietà era configurata come <<il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta>> (art. 544 cod. Nap.)[95]. Il contratto era legge per i contraenti (art. 1101 cod. Nap.)[96]. Le tre parti, in cui si articolava il Codice francese (e, sulla sua scorta, anche altri codici, fra cui quello italiano del 1865) si intitolavano «Delle persone», «Dei beni e delle differenti modificazioni della proprietà» e «Dei differenti modi, coi quali si acquista la proprietà»[97] (il contratto era considerato come un modo di acquisto della proprietà).

In base alle concezioni del liberalismo economico allora dominante, lo Stato si limitava ad affermare la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, tutelandoli dall’esterno, con norme di polizia, che di regola prescindevano dal contenuto effettivo dei diritti garantiti, rimanendo spettatore e giudice di campo nelle competizioni e nei contrasti di interessi delle parti, affidando fiducioso il benessere sociale al naturale ed automatico gioco delle leggi economiche ed alla libera attività dei soggetti.

Il soggetto è preso in considerazione non già come un subiectum come sottoposto al potere dello Stato, ma come il naturale titolare di un potere, che lo Stato doveva garantire.

E soggetto era essenzialmente l’individuo, la persona fisica. Le aggregazioni sociali – ad eccezione della famiglia – erano considerate con sfiducia dallo Stato, erano sottoposte a particolari forme autorizzative, diffidandosi di ogni riconoscimento di potere che non avesse come titolare la persona fisica, l’individuo[98].

Naturalmente la libertà veniva garantita al singolo con le limitazioni strettamente necessarie a render possibile la convivenza sociale.

E così si affermava genericamente che il diritto di proprietà poteva trovare un limite nelle leggi e nei regolamenti (art. 544 cod. Nap. e art. 436 cod. civ. it. 1865) e che il contratto (l’altro fulcro del sistema) non poteva giammai avere effetto quando fosse contrario all’ordine pubblico o al buon costume (vedi la formula dell’art. 31 delle preleggi al vigente codice civile italiano[99], tramandata dal cod. Nap.).

L’ordine pubblico e il buon costume costituivano il limite generale alla libertà dei privati.

Non sussistevano di regola altri limiti per la tutela di interessi sopraindicati a quelli del singolo individuo o che non fossero interessi della generalità, cioè interessi dello Stato.

Un’eccezione era data dal diritto di famiglia, atteso che l’interesse della collettività familiare limitava il diritto ed il potere dei singoli.

Ma, di regola, l’ordinamento giuridico non prendeva in considerazione interessi collettivi, ma soltanto o interessi dell’individuo o interessi della comunità statale.

Nel sistema sopra delineato si inserì l’elaborazione dommatica tedesca del diritto soggettivo (configurato dal Savigny come un potere della volontà) e del negozio giuridico (manifestazione di volontà, non necessariamente contrattuale, con la quale il singolo persegue scopi tutelati dall’ordinamento giuridico)[100].

La codificazione, nel codice civile tedesco, di quella categoria astratta del negozio giuridico concludeva, con la fine del XIX secolo, quel processo legislativo che incentrava le norme di diritto privato nella tutela del soggetto singolo.

La contrapposizione tra il singolo e lo Stato, tra gli interessi dell’individuo e quelli della intera collettività statale poneva la delimitazione tra il diritto privato e il diritto pubblico in termini abbastanza semplici: era diritto privato quello che si riferiva ai singoli soggetti per riconoscerne il naturale diritto di libertà e per garantire tale diritto con gli strumenti del diritto soggettivo (primo tra tutti il diritto di proprietà) e del negozio giuridico (tipico: il contratto), articolandosi in norme di regola derogabili; era diritto pubblico quello che si riferiva allo Stato, cioè alla generalità dei consociati, per garantire l’organizzazione ed il funzionamento con strumenti tipicamente pubblicistici, nei quali si esplicava la potestà di imperio (legge, provvedimento amministrativo, sentenza), con norme cogenti, non derogabili dalla volontà dei privati.

Quella distinzione fondata sulla natura dei soggetti e degli interessi protetti, nonché sugli strumenti di protezione di tali interessi, appariva abbastanza soddisfacente.

La delimitazione tra il diritto privato ed il diritto pubblico appariva netta, sia dal punto di vista funzionale (tutela degli interessi dei privati da una parte e tutela degli interessi dello Stato dall’altra parte), che da quello strutturale (diritti soggettivi e negozio giuridico da una parte; atti di imperio dall’altra).

La distinzione tra le norme di diritto privato e quelle di diritto pubblico va fatta sotto il profilo strumentale e non sotto il profilo funzionale.

Sono norme di diritto privato quelle che tutelano interessi umani o regolano un’attività umana (del singolo o di collettività di singoli) con i tradizionali strumenti privatistici dell’autonomia privata (diritto soggettivo e negozio giuridico), prescindendo dalla rilevanza pubblica o privata dell’attività e degli interessi tutelati, nonché dalla natura, pubblica o privata, del soggetto agente, purché tali strumenti, nonostante i particolari atteggiamenti assunti in funzione della natura e della collettività degli interessi tutelati, mantengano ancora la loro essenziale configurazione.

Sono, per converso, norme di diritto pubblico quelle che tutelano interessi umani con strumenti autoritativi, anche se il diretto beneficiario della norma è un privato, anche se l’interesse tutelato è anzitutto e in primo luogo un interesse privato. Sono così norme di diritto pubblico quelle che tutelano il privato imprenditore con strumenti pubblicistici, quali, ad es., le norme sull’espropriazione previste nelle leggi sull’industrializzazione dopo l’ultima guerra mondiale che, innegabilmente, tutelano in primo luogo un interesse di un privato imprenditore. Le leggi sulle terre incolte, quelle di riforma agraria, ed ancora di recente il D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio), che impone al proprietario, al quale sia stato notificato dal Ministero per i beni e le attività culturali la c.d. “dichiarazione dell’interesse culturale” (artt. 13 ss.), una serie di limiti; le disposizioni sui tassi usurai (art. 2 L. 7 marzo 1996 n. 108, ed ancora l’art. 1 del D. Lgs. 29 dicembre 2000 n. 394, convertito con L. 28 febbraio 2001 n. 24).

Senonché, dall’inizio del XIX secolo ad oggi il sistema economico-sociale ha subito un’evoluzione non sempre conforme, anzi notevolmente difforme, dalle previsioni sulle quali era originariamente fondato il sistema giuridico delle codificazioni.

I conseguenti interventi legislativi (particolarmente notevoli dopo le due grandi guerre della prima metà del secolo scorso) hanno portato anche nel sistema giuridico profonde innovazioni, che pur essendo eversive, come da qualcuno si è creduto, hanno dato al diritto privato – come è stato rilevato dal Giorgianni[101] – sin dall’inizio del 1960, un «nuovo volto», che qui si vuole tratteggiare in forma istituzionale.

Sul piano giuridico-filosofico il diritto naturale appare sempre più chiaramente come termine contrapposto al diritto positivo nella dialettica evolutiva del diritto e come una meta che il diritto positivo persegue, senza poter mai raggiungere appieno.

I singoli diritti naturali dell’uomo, i c.d. diritti innati, esistono positivamente nel riconoscimento che le leggi ne fanno ed entro i limiti segnati dalla tutela ad essi accordata.

La stessa codificazione napoleonica, se era ispirata nei suoi progetti a principi giusnaturalistici[102], rappresentò – nel testo definitivo – un superamento di quei principi e un’affermazione del c.d. positivismo giuridico e dell’autorità dello Stato, alla quale le correnti giuridico-filosofiche del XIX secolo dovevano dare più saldo fondamento[103].

La tutela dei diritti fondamentali degli uomini, però, che nel XIX secolo costituiva la ragion d’essere delle codificazioni del diritto privato, è divenuta oggi compito del diritto pubblico in generale e, in particolare, del diritto costituzionale e del diritto amministrativo. Il riconoscimento dei diritti cc. dd. naturali dell’uomo è contenuto nel preambolo della nostra Costituzione tra i principi fondamentali e alla loro tutela è dedicata tutta la parte prima della Costituzione stessa (artt. 13-54), nonché le norme sulla giurisdizione e, in particolare, l’art. 113, che prevede una strutturazione efficiente della tutela del privato cittadino contro gli atti illegittimi della pubblica amministrazione.

Il diritto privato non può oggi essere considerato come il diritto che al privato riconosce e tutela le sue fondamentali qualità umane, ma come il diritto che regola quei rapporti privati e quell’attività privata dei consociati, che trovano i loro presupposti ed il loro riconoscimento nelle norme della Costituzione, cioè nel diritto pubblico: il diritto costituzionale scrive il primo capitolo di ogni istituto di diritto privato, e non si contrappone al diritto pubblico, ma vive nel diritto pubblico, cioè entro i limiti da questo segnati[104].

Diritti soggettivi e negozi giuridici sono espressione della c.d. autonomia privata, cioè della libertà dei singoli entro i limiti segnati dall’ordinamento giuridico. Entro quei limiti si esplica l’attività privata, oggetto del diritto privato.

In questo ambito nasce e si sviluppa la figura dello status, atteso che la persona fisica vive in un contesto familiare, prima, e sociale, dopo. La posizione della persona fisica rispetto all’appartenenza a determinati gruppi sociali prende il nome di status.

La posizione giuridica di un soggetto non è la somma dei suoi poteri e doveri, o, più in generale, dei rapporti che allo stesso fanno capo, è, invece, il presupposto di una sfera di capacità e quindi di una serie aperta di poteri e doveri o di rapporti, che possono mutare, senza che perciò muti lo stato, allora i diritti e doveri si ricollegano alla qualità del soggetto[105]. Lo status è una qualità giuridica che si collega alla posizione della persona fisica in una collettività ed è fonte di diritti, di doveri e anche di poteri. Si tratta di una situazione giuridica che manca del tutto di riferimento oggettivo[106].

In relazione alla appartenenza della persona fisica ad un determinato gruppo politico o familiare, sono stati distinti due status: quello civitatis e quello familiae.

Si è detto che lo status è fonte di diritti che per la loro natura sono validi erga omnes, sono inalienabili ed imprescrittibili, non possono formare oggetto di compromesso o transazione.

La figura dello status ha formato oggetto di studi da parte della dottrina che non è possibile neppure richiamare nelle linee essenziali[107].

Tradizionalmente si configurano due modi prevalenti di atteggiarsi dello status, il primo è quello che lo considera come una posizione stabile o anche permanente della persona fisica rispetto ad una collettività.

Il secondo è quello che considera lo status come una qualità intrinseca ed essenziale che identifica il soggetto. Si tratta di una entità identica a sé stessa, al di là delle vicende che in relazione alla detta qualità possano ad esse riferirsi e delle conseguenze che ad essa possano imputarsi sul piano giuridico[108].

La figura dello status è oggetto di ricorrenti interessi che pervengono a soluzioni diametralmente opposte. Ad esempio un Autore ritiene inutile il ricorso alla nozione di status[109], mentre altri ne ampia i contenuti[110].

13. Dal diritto del singolo agli interessi collettivi. Le limitazioni all’autonomia dei privati. i c.d. gruppi intermedi e la nuova categoria di autonomia: quella collettiva

Tale attività privata era – per le codificazioni del XIX secolo – essenzialmente la attività del singolo, costituendo l’individualismo economico la base del sistema e delle teorie del liberalismo economico allora dominanti.

Ora, se il sistema codificato nel secolo scorso tutelava formalmente il singolo individuo, lo lasciava, però nella sua sconsolata solitudine.

L’astratta libertà individuale, positivamente definita in termini di diritto soggettivo privato, ha un significato concreto solo per quelli che effettivamente dispongono in partenza di un certo numero di opportunità, mentre diventa non libertà per coloro, e sono i più, che partono con poche o punto possibilità di successo. Data la disuguaglianza delle posizioni individuali di partenza, il principio di libertà diventa uno strumento di formazione di centri di potere economico.

La codificazione del XIX secolo, dando riconoscimento alla autonomia dei privati, rimuove gli ostacoli che si frapponevano al sorgere e all’espandersi della industria moderna. Ma la realtà, attraverso la rapida formazione dei gruppi di potere, assume presto un aspetto ben diverso da quello previsto dai teorici dell’economia liberale di vecchio stampo e dai compilatori dei codici.

E mentre da una parte assistiamo alla formazione di gruppi di potere economico in società di capitali, in cartelli, consorzi, trusts, di proporzioni sempre maggiori, nelle quali il singolo socio quasi scompare ed i suoi interessi rimangono sommersi e spesso sacrificati ad altri interessi della collettività sociale[111], dall’altra parte assistiamo al sorgere (o al risorgere) di associazioni o di raggruppamenti vari, che sotto diversa denominazione (associazioni, si pensi a quelle dei consumatori, federazioni, sindacati ecc.) tendono a difendere interessi che non appartengono soltanto al singolo, ma che non sono neppure della generalità di tutti i cittadini, ma di una data collettività[112].

Questi gruppi, chiamati gruppi intermedi in quanto si pongono tra il singolo e lo Stato, sono espressione del c.d. pluralismo economico, nel quale si è gradualmente, ma necessariamente, trasformato l’individualismo economico del secolo scorso. Sorti in origine come mezzo di difesa contro la formazione dei gruppi di potere economico, sono divenuti mezzo normale di difesa di interessi collettivi.

Dall’originaria posizione di diffidenza, gli ordinamenti giuridici dei paesi continentali europei sono passati al più ampio riconoscimento ed alla tutela di quelle associazioni: «La Repubblica – si legge all’art. 2 della nostra Costituzione – riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale» (art. 18 Cost.)[113].

«L’organizzazione sindacale è libera» (art. 39 Cost.).

Ma gli interessi difesi da quelle collettività organizzate non cessano di essere interessi privati e non divengono interessi pubblici. La loro tutela forma oggetto del diritto privato così come forma oggetto di diritto privato la tutela degli interessi delle collettività familiari.

Il rilevato progressivo svilimento dell’individuo non ha portato ad una contrazione dei limiti del diritto privato, ma, semmai, ad una dilatazione dei suoi confini.

A quei gruppi intermedi il diritto privato, per la tutela di quegli interessi collettivi, dà protezione riconoscendone la autonomia (anche indipendentemente dalla soggettività giuridica) e fornendo loro i suoi tradizionali strumenti, adattati agli interessi collettivi da tutelare.

Si parla così di una autonomia collettiva; sorge così il contratto collettivo – l’una e l’altro a difesa di interessi collettivi privati.

Il diritto privato continua ad avere come suo oggetto specifico l’autonomia privata, intesa, però, come comprensiva dell’autonomia del privato e dell’autonomia collettiva.

L’autonomia collettiva è – per parafrasare l’art. 2 della Costituzione – il mezzo con cui si svolge e si potenzia l’autonomia del privato. Naturalmente l’autonomia collettiva limita l’autonomia del privato (art. 2077 cod. civ.).

Ma quella limitazione non avviene per perseguire un interesse pubblico (statale), ma un interesse della collettività, alla quale il singolo ha liberamente partecipato.

Il naturale gioco delle forze economiche, anche col correttivo della c.d. autonomia collettiva sopra illustrata, si manifestava spesso inefficiente alla tutela degli interessi della generalità, che potevano essere insidiati dalla libertà riconosciuta al singolo e – in misura proporzionalmente maggiore – dalla libertà di azione riconosciuta ai gruppi dei singoli.

Da qui la necessità di porre all’autonomia privata (individuale e collettiva) limiti maggiori di quelli originariamente posti dalle codificazioni del XIX secolo.

Una tale esigenza – come si è accennato – si è manifestata più precisamente in momenti di emergenza e, in particolare, in occasione delle due guerre della prima metà del secolo scorso (durante e dopo tali guerre), che hanno accelerato i processi evolutivi in campo economico, sociale e, quindi, giuridico.

Spesso disposizioni legislative, emanate in situazioni di emergenza, destinate a scomparire al cessare della guerra o delle eccezionali contingenze da questa create, si consolidavano e divenivano espressioni anticipate di una stabile riforma (si pensi a quanto è accaduto nel campo dei contratti agrari, in cui le disposizioni belliche e postbelliche di proroga e di blocco dei canoni sono divenute anticipazione della riforma dei patti agrari e dei principi della giusta causa e dell’equo canone, che di quella riforma dovranno costituire i cardini fondamentali, lo stesso vale per le locazioni degli immobili urbani, L. 27 luglio 1978 n. 392).

Il moltiplicarsi dei limiti all’attività privata è stato causato in parte dalla necessità di dettare regole più appropriate per evitare la sopraffazione di un contraente sull’altro nel naturale e libero svolgimento delle attività private, ma nella maggior parte è stato causato dai compiti che lo Stato moderno ha ritenuto di porsi.

Sotto il primo profilo, la più accentuata tutela della buona fede e dell’affidamento, la maggior protezione del contraente più debole, ad esempio art. 1339 cod. civ., L. 6 febbraio 1996 n° 52, inserendo nel IV libro del cod. civ. il capo XIV bis, rubricato “dei contratti del consumatore” e costituito da cinque articoli dal 1469-bis al 1469-sexies[114], e la L. 18 giugno 1984 n° 182 “disciplina della subfornitura nelle attività produttive”[115], la condanna dell’abuso del diritto[116] (artt. 833, 844, 1124 cod. civ.), l’imposizione di un generale obbligo di correttezza nell’agire umano[117] (artt. 1175, 1176, 1375 cod. civ.), costituiscono mezzi più affinati, con i quali lo Stato sovraintende ai contrasti tra i privati e rientrano negli strumenti tradizionali, che sono stati soltanto potenziati e adeguati alla nuova realtà dei rapporti umani.

Quelle norme, come è ovvio, non apportano alcuna innovazione alla delimitazione tra diritto privato e diritto pubblico.

Il diritto privato rimane il diritto che tutela gli interessi privati (dei singoli e della collettività), garantendo la loro autonomia, entro limiti predeterminati dallo Stato, con gli strumenti tradizionali del diritto soggettivo (tipico: la proprietà) e del negozio giuridico (tipico: il contratto).

In particolare, la proprietà privata ed il contratto, con i loro fondamentali attributi, che garantiscono al singolo una sfera più o meno ampia di autonomia, sono stati riconosciuti dalla Costituzione agli artt. 41 e 42 in quanto si è ritenuto che essi rispondono ancora, come istituti privati, ad una funzione sociale, con la loro struttura tradizionale, basata su quella autonomia privata, su quella tutela di interessi privati.

La proprietà rimane istituto di diritto privato, anche quando i beni, ai quali essa si riferisce, interessano la produzione nazionale[118] (art. 838 cod. civ.), ovvero i beni di interesse storico ed artistico[119] (art. 839 cod. civ.), così anche gli artt. 846[120], 857[121] ss., 866[122] ss., 1033[123], 1049, 1051[124], 1056[125], 1057[126] cod. civ. Si tratta di previsioni dirette a conciliare l’interesse del proprietario con quello di altri proprietari o con quello della collettività.

Privata rimane l’attività dei singoli e degli enti, anche quando è soggetta a particolari forme autorizzative e a controlli da parte della pubblica amministrazione per l’interesse pubblico a quella attività connessa.

14. Interpretazione della legge ed accertamento del diritto. Il linguaggio giuridico. Intepretatio e voluntas legis

La funzione dichiarativa della interpretazione non soddisfa appieno ed in maniera completa alla sua natura effettiva ed al valore storico. Tuttavia detta funzione dichiarativa svolge un ruolo fondamentale e, non tenerne conto, potrebbe portare a risultati errati.

La natura dichiarativa della interpretazione assolve alla necessaria esigenza di continuità dello sviluppo giuridico. Detto requisito è strettamente connesso a quello della certezza del diritto, della uniformità della sua applicazione e della necessità che la soluzione di ogni caso proceda da una regola di carattere generale.

Ne consegue che la natura dichiarativa dell’interpretazione costituisce una garanzia della libertà ed eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Se poi si vuole allargare il discorso si può trovare un collegamento tra la natura dichiarativa della interpretazione ed il principio della divisione dei poteri che costituisce il cardine e la garanzia fondamentale contro l’abuso del potere.

Il principio ispiratore è quello della prevalenza dell’effettiva volontà della legge, vale a dire della sua identificazione[127].

I criteri interpretativi differenti nel diritto privato e nel diritto penale, dimostrano la diversa estensione della interpretazione dichiarativa, diversità dettata dall’esigenza di tutelare la libertà individuale.

Sussiste l’esigenza che la soluzione giuridica del caso concreto si accordi ad una norma corrispondente, nei differenti sistemi i mezzi adottati per soddisfare queste esigenze sono diversi.

Si pensi al sistema inglese ed a quello nord-americano che, riconoscendo valore normativo al precedente giurisprudenziale, si differenziano dai sistemi codificati.

La interpretazione della norma ha una valenza tecnica ed evidenzia e riassume i limiti posti alla influenza che il principio giuridico adottato in una sentenza può esercitare sui casi in cui non si estende l’efficacia del giudicato.

Tuttavia nei sistemi codificati la interpretazione risente ed è influenzata dalla organizzazione sociale, dal metodo di scelta dei giudici e dell’organizzazione del sistema giudiziario e del processo – da un lato – e dal meccanismo legislativo – dall’altro – nonché dalla storia e dalla cultura dei vari paesi.

In detti sistemi la certezza del diritto ed il principio della legalità sono collegati al principio tradizionale secondo il quale al sistema compete la codificazione e la creazione delle norme, di contro al giudice compete la sola applicazione della legge[128].

Tuttavia le spinte sociali ed economiche, le nuove frontiere di tutela di diritti della persona, hanno contributo alla costruzione ed alla entificazione di nuove categorie di diritti con profonde modifiche, anche dei principi, provocando resistenza e contrasti tra i differenti gradi di giurisdizione o all’interno di uno di essi e con interventi, alle volte anche ricostruttivi, del giudice delle leggi[129].

Il “significato proprio delle parole” non è quello che esse hanno nel linguaggio comune. Occorre ipotizzare un linguaggio nel quale la scelta del contenuto delle parole ed il loro valore semantico sono diretti alla ricerca di significati sistematici e coerenti. Linguaggio inteso come un sistema di parole e di regole e, quindi, come il complesso di tecniche dirette a rimuovere oscurità ed ambiguità, ed a promuovere una intrinseca chiarificazione del linguaggio stesso e delle sue strutture. Occorre eliminare tutte le interferenze soggettive o emotive che sono presenti nel linguaggio ordinario. È quindi necessario elaborare una grammatica logica che determini più esattamente le regole di relazione e d’uso delle parole e sotto questa ottica va interpretato il contenuto dell’art. 12 disp. prelim. cod. civ. e degli artt. 1362 e ss. cod. civ.[130]

La semantica giuridica rientra nella più ampia categoria dell’analisi del linguaggio e studia la relazione dei segni con ciò che essi designano[131].

Il linguaggio che si suole chiamare scientifico è un linguaggio più rigoroso del linguaggio comune[132].

La interpretazione dichiarativa realizza una funzione storica nello sviluppo del diritto e i limiti dell’esercizio di detta funzione sono costituiti dalla necessità fondamentale di coordinare ogni soluzione interpretativa col diritto precostituito ma anche con i mezzi idonei alla soddisfazione di questa esigenza.

Se si volge lo sguardo al passato si può rilevare che nel diritto classico romano la interpretatio secondo la voluntas legis era la base ed il metodo dell’interpretazione secondo l’aequum et bonum in contrapposto allo ius strictum[133].

Detta voluntas si ricava dall’esame di tutta la legge[134], superare il valore lessicale dei verba e intendere la voluntas, vuol dire rivelare la vis e la potestas legis[135].

Negli scritti di Cicerone si avverte che c’è un fermento di nuova vita che è il preludio di una più profonda osservazione del fenomeno giuridico e di una più intensa elaborazione scientifica. Come tale il momento si manifesta nella scuola, nella pratica, nelle controversie dei giuristi, e perciò nei primi tentativi di sistemazione del ius civile; Cicerone c’informa della frequenza e dell’importanza delle controversie sulla volontà in confronto ai verba[136].

15. Prime considerazioni. Il rilievo del metodo interpretativo. La postdecodificazione.

 Come sopra esposto la interpretazione giuridica rientra nel più ampio campo di indagine che è quello della ermeneutica, il cui contenuto è complesso ed articolato.

Storicamente occorre prendere le mosse da Artistotele che, con il secondo trattato dell’organon  ΠΕΡΙ ΕΡΜΗΝΕΙΑΣ (Dell’interpretazione)[137] prende in esame la proposizione (πρότασις) e, quindi, il giudizio dell’intelligenza mediante il quale due termini vengono legati da una affermazione ovvero da una negazione. Con il giudizio noi diciamo la nostra “interpretazione” della realtà. Lo Stagirita espone le varie parti della proposizione, le diverse forme di proposizioni, in tal modo esse sono tra loro opposte, contrarie e contraddittorie ed indica quali regole devono essere seguite perché si abbia una retta opposizione.

Non si tratta della interpretazione nel suo significato comune, bensì di ciò che indicano il nome, il verbo, la negazione, l’affermazione, l’enunciazione e il discorso, nella loro collocazione strutturale.

Quella di Aristotele è la più antica trattazione sistematica e speculativa, a noi pervenuta della ερμηνεία, nella quale è già avvertito il legame tra la interpretazione, il linguaggio e la sua struttura. Ogni discorso enunciativo deriva da un verbo o da una sua flessione, “ed infatti la definizione di uomo, se non sia stato aggiunto è o sarà o era o qualcosa del genere, non sarà ancora discorso enunciativo”[138]. Nei processi ermeneutici trattati da Aristotele le cose erano interpretate dalle parole, l’ermeneutica riguardava l’attribuzione di nomi a cose[139].

Come è stato messo in luce “nella antica romanità i vocaboli della famiglia “interpretati”, “interpretatio”, “interpres”, avevano un uso giuridico e forse può dirsi che l’uso giuridico sia stato il più antico uso (potrebbe dirsi, se per quelle e poche e quelle culture non fosse inopportuno distinguere gli usi “giuridici” da altri usi settoriali)”[140].

L’applicazione della legge coinvolge l’accertamento del dato normativo e la sua interpretazione. In ordine all’accertamento esso è retto dal noto brocardo iura novit curia: la legge non deve essere provata al giudice, perché gli è nota a prescindere ed al di fuori di ogni attività delle parti[141].

L’accertamento della legge non riguarda soltanto l’esistenza di essa, ma anche la sua costituzionalità.

L’interpretazione consiste in un processo logico diretto a determinare a quali soggetti la volontà legislativa è diretta, quali fattispecie essa comprenda, e cosa disponga per tali soggetti e siffatte ipotesi.

La volontà è quella della legge, cioè una volontà obiettivata, che fa parte dell’ordinamento giuridico. Ne consegue che deve escludersi che nella interpretazione della legge si debba rilevare l’intenzione, ossia la volontà subiettiva del legislatore.

Uno dei problemi dell’ermeneutica giuridica è quello di definire e regolare il rapporto intercorrente tra i concetti giuridici attuali e quelli del passato.

Detto rapporto è stato considerato, in via esclusiva, come analisi del contenuto logico-giuridico delle costruzioni dogmatiche del passato, intese come entità autonome, sia che si pervenga alla loro interpretazione e definizione attraverso la comparazione esplicita o tacita con quella del presente, sia che quelle del presente vengano assunte come strumento ermeneutico per comprendere il significato delle strutture logiche anteriori. Betti[142] ha teorizzato l’impostazione speculativa secondo la quale la analisi ermeneutica prescinde da qualsiasi indagine sulle ragioni storiche che hanno direttamente o indirettamente promosso quelle costruzioni nel passato, così come la scienza dogmatica fa per il presente, è costituisce una volta di più una chiusura del diritto come tecnica, dotato di una sua cognizione autonoma, di fronte alla cognizione nella sua totalità. Betti affermò l’esistenza di una gerarchia tra le differenti storiografie.

Di fronte alla storiografia in generale, che si rivolge alle ordinarie categorie economiche-etiche e di esse ed in esse si soddisfa, esiste una cognizione di grado superiore che è quella giuridica, che utilizza gli strumenti concettuali della dogmatica che, come è indispensabile alla interpretazione direttiva della condotta, è, parimenti, rispondente ad una esigenza tecnica della ricerca giuridica, il che contribuisce a farne una cognizione superiore così come quella dell’arte, della letteratura, delle scienze, della lingua, degli ordinamenti sociali ed economici.

La ragione per la quale la storia del diritto, intesa come conoscenza dei diversi stati realizzati successivamente nel passato, ossia come l’esposizione ordinata con unità di sviluppo, è equiparata alle differenti cognizioni superiori e va ricercata nel fatto che “in tutte codeste oggettivazioni della spiritualità sul piano della comunione umana il fatto storico non si limita ad essere semplicemente un fatto individuale di date personalità, fatto che accade in certe condizioni di tempo e di luogo, ma è tale da avere in sé un valore spirituale, la cui coerenza intrinseca e continuità con altri valori affini è da intendere anzitutto in sé stessa, nel suo aspetto oggettivo, nel suo stile e “logos”, indipendentemente dalle contingenti circostanze storiche del suo realizzarsi come anche dalla pura relazione cronologica del prima e del poi”[143].

Questa teoria del Betti, e l’affermazione di una superiorità della storia e quindi della cognizione giuridica, trova il suo limite nell’equivoco generato dall’identificazione che l’A. fa della storia del diritto con il diritto come astrazione, e quindi prende in considerazione un elemento: qualità o relazione del diritto fissando in modo particolare l’attenzione su di esso e trascurando gli altri. La cognizione, se è veramente tale, ha il suo carattere etico nella ricostruzione ed interpretazione del passato e non tollera la superiorità di uno degli aspetti sotto i quali può essere pensato.

La esigenza che ogni tecnica ha sempre cercato di soddisfare è stata ed è quella di definire i termini ed i concetti, esigenza sentita anche dagli studiosi del diritto i quali si sono trovati di fronte a due ordini di difficoltà: il fatto che i termini giuridici sono spesso presi a prestito da linguaggi diversi: quello corrente, quello scientifico e quello tecnico[144]; ed il fatto che nell’evolversi del tempo i termini ed i concetti hanno spesso perduto il loro valore originario, stemperandolo, ed assumendo diversi significati a seconda anche del periodo storico e sociale nel quale sono stati rielaborati, pur rimanendo il termine ed il concetto uguale nella sua espressione semantica.

Parlare di esperienza giuridica significa porre al nostro esame dei termini naturali, significa definire la ricerca in riferimento ad una certa cultura, a un certo stile, a un certo atteggiarsi delle forze economiche e sociali che circolano entro quei termini e tipizzano la vita del diritto e le cristallizzazioni che da e in quella vita si formano e che siam soliti chiamare istituti[145].

A ciò è da aggiungersi che il linguaggio giuridico contiene tanto espressioni definite che non definite e che il legislatore nazionale è alieno dal precisare le espressioni (soprattutto se si tratta di quelle attinenti alla teoria generale, come ad esempio negozio giuridico, atto giuridico, fatto giuridico, capacità giuridica etc.), anzi spesso lascia loro il senso che avevano nel linguaggio da cui le ha tratte[146].

La definizione è una breve ed univoca caratterizzazione di qualche cosa[147] e cerca di soddisfare l’esigenza di porre rimedio alla confusione sia dei concetti che delle parole[148].

La parola, il termine, la espressione possono essere intesi in vari modi: la parola può designare qualche variante imprevista di ciò che è familiare, come un fatto complesso, mentre se ne aspettava uno semplice ed unitario, un fatto futuro mentre se ne aspettava uno presente, un fatto psicologico mentre se ne aspettava uno materiale. La parola può anche designare ciò che in un certo senso è una definizione; infine la parola designa qualcosa di diverso dalle altre cose, in quanto non possiamo toccarla, sentirla o vederla[149].

La tricotomia teorica sopra riportata ha costituito fonte di incertezze per i giuristi, quando hanno dovuto affrontare il problema della definizione dei termini e dei concetti giuridici[150].

Il diritto è il necessario strumento di aggregazione, che non può venir meno, di ogni organizzazione sociale e si fonda su regole, sanzioni, procedure ed istituzioni[151].

In quanto sistema ha proprie regole di ermeneutica, è dotato di autonomi mezzi e strumenti utilizzati dai giuristi, ed ha proprie pratiche giuridiche interpretative.

La staticità del quadro politico, economico e sociale comporta la cristallizzazione del sistema legislativo e di quello evolutivo della giurisprudenza. Quando il primo subisce mutamenti, viene sconvolto, distrutto e ricostruito, l’onda si ripercuote sul secondo con pari magnitudo.

È quanto avvenuto nel nostro Paese tra il 16 marzo 1942 ed il 27 dicembre 1947, cioè tra la approvazione e pubblicazione del vigente codice civile e la promulgazione della Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Breve periodo, poco più di cinque anni, ma basta focalizzare storicamente i due momenti per vedere come i quadri politico-istituzionali e sociali sono non solo differenti ma antitetici. Due mondi, quasi due epoche opposte. Uno degli effetti di quanto sopra esposto è stata la perdita di centralità del sistema codicistico a favore della Costituzione. Ed ancora la centralità della persona e dei diritti connessi alla stessa (riservatezza, salute, lavoro, ambiente, confessione religiosa), le spinte sociali e gli “obblighi” del legislatore costituzionalmente previsti hanno acuito la crisi del sistema codicistico e lo hanno minato alle basi.

Ecco sorgere tutta una legislazione che si affianca al codice. Norme speciali, eccezionali, che regolano e tutelano interi istituti ovvero che li correggono, modificano, per adeguarli ai nuovi principi. A quanto precede va aggiunto il contributo delle pronunce della Corte Costituzionale, variamente definite dagli studiosi della materia. Basti porre attenzione al regolamento della famiglia ed a quello collegato del sistema successorio. Quando è entrata in vigore la riforma del diritto di famiglia (legge 19 maggio 1975 n° 151) del vecchio sistema rimanevano alcuni ruderi, poche vestigia e l’operatore del diritto non consultava il codice civile, ma si aggiornava con le pronunce della Corte Costituzionale.

Il legislatore è intervenuto quando quei sistemi non avevano più vita nel mondo del diritto, anche se alcuni retaggi sono rimasti come i fossili guida o gli animali preistorici, si pensi all’art. 274 codice civile sulla ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziaria della paternità e maternità naturale[152]. Certo è che il retaggio sull’ammissibilità dell’azione è ancora vigente e la stessa non può essere validamente instaurata prima della pronuncia definitiva del decreto di ammissibilità, onerando, quindi, la parte attrice di sei fasi di giudizio.

Il proliferare delle leggi e la volontà, quasi maniacale del legislatore, di risolvere sempre e tutti i problemi a livello legislativo, il duplicarsi e il sovrapporsi delle normative, hanno ridotto l’ambito del codice a favore di una stratificazione legislativa alle volte di modesta se non scadente tecnica legislativa[153]. Gli istituti privatistici vengono rivisitati alla luce delle nuove ideologie e del differente quadro politico.

Il fenomeno della decodificazione non ha riguardato soltanto il codice civile ma tutto il sistema codicistico. Si pensi al codice di procedura civile, nel quale il fenomeno ha assunto un profilo forse più incisivo. Sin dal 1969 con l’introduzione dell’istituto della adozione speciale (legge 5 giugno 1967 n. 431) il legislatore ha previsto riti differenti e specifici. Successivamente intere materie sono state sottratte al rito ordinario, a titolo meramente esemplificativo abbiamo: il rito del lavoro, quello delle locazioni, quello agrario, quello della separazione e del divorzio, quello delle espropriazioni, sino ad arrivare al rito societario (d.lg. 17 gennaio 2003, n. 5) applicabile anche ai procedimenti in materia di proprietà industriale e di concorrenza sleale (d. lgs. n. 30/2005).

Il legislatore ha avvertito la crisi del sistema giudiziario, il dilatarsi dei tempi ed ha fatto ricorso hai “riti speciali”, esautorando quasi del tutto il sistema codicistico.

Altro leit motiv introdotto negli anni settanta è il ricorso del legislatore al giudice monocratico (conciliatore o pretore), ciò per esigenza di snellezza, contemporaneamente ha cercato di proporre e varare riforme strutturali che si sono accavallate con pochi se non scarsi successi che sono sotto gli occhi di tutti. La prima difficoltà è quella di capire quale giudice adire e il rito da applicare, problema spesso di non facile soluzione e foriero di eccezioni, di regolamenti e quant’altro.

Sistema caotico ed insicuro e, come tale, contrario ai principi della civiltà giuridica.

Dopo l’età della codificazione e il conseguente superamento dei codici, IRTI ci introduce alla solitudine del legislatore[154], e rileva che la tradizione del diritto romano e la tutela del diritto comune sono state interrotte dall’età delle codificazioni, frutto anche del disegno illuministico di governare la convivenza degli uomini, la tutela dei diritti, il regolamento degli interessi, mediante la razionalità della legge.

Solo con la codificazione potevano avere tutela i principi illuministici e il nuovo sistema frutto della rivoluzione.

Il sistema codicistico si contrappose e pose fine al diritto romano e finì per identificarsi con il diritto: legge (lex) e diritto (jus) divennero tutt’uno. L’A. svela il carattere autentico del diritto, una volta che diventa patrimonio degli uomini esso ne condivide l’arbitrarietà, la strumentalità, la storicità in relazione al gioco degli interessi che si intrecciano e sono il contenuto della società. Il diritto non è solo positivo, ma im-positivo.

Il diritto ha una sua natura tecnica affatto peculiare e, come ogni espressione di volontà, quella della norma giuridica ha una tecnica, fra le tante altre, specifica di una sfera di attività umana, orientata secondo scopi particolari.

Per IRTI, non esiste una tecnica assoluta ed onnivora e non riconduce le varie tecniche ad una sola tecnica, essendo la sua una prospettazione relativistica. Per l’A. l’arbitrarietà, intesa come ciò che, sciolto dalla tradizione e non obbedendo ad alcuna autorità ereditaria, è affidata a sé stesso ed ancora si genera e svolge esclusivamente in sé stesso, rivela la solitudine del diritto moderno, che ha fatto il vuoto intorno a sé perché ha rifiutato l’antico patrimonio del diritto romano.

La sindrome delle riforme del legislatore è determinato dalla convinzione che il diritto appare privo di durata ed ancora variabile e plasmabile dalla volontà umana. La situazione morbosa del riformismo è strettamente collegata dall’idea di produzione e dalla convinzione che le leggi vengono dal nulla al quale tornano.

Si tratta di una critica pessimistica dell’organizzazione giuridica, una dottrina in cui non esiste nulla (di assoluto), una posizione diretta alla negazione del sistema di valori esistenti. L’atteggiamento dell’A. è quello per cui non ci sarebbe alcuna realtà sostanziale sottesa al fenomeno giuridico[155].

16. Validità ed attualità del profilo storico-metodoligico

 IRTI prende in esame la proliferazione delle leggi speciali e la crisi del codice civile[156] che, più che rappresentare un diritto esclusivo ed unitario dei rapporti privati, si presenta come diritto comune, luogo di quei principi generali che le altre leggi sviluppano e modificano[157].

Si è assistito ad una radicale modifica della tecnica legislativa e, continua l’A., la stessa interpretazione della legge non può più essere ragionata nei termini della scienza giuridica classica. Il “significato proprio delle parole” e la “intenzione del legislatore” – i due elementi, che dovrebbero rendere palese all’interprete il senso della legge (art. 12, comma 1, disp. prelim. cod. civ.) – acquistano un nuovo valore[158].

Ogni discorso sui criteri ermeneutici e sui relativi temi e problemi può essere condotto o sul piano della  teoria generale, o, invece, in funzione di un singolo diritto positivo. Vengono presentate non infrequentemente teorie sulla interpretazione che valgono specificatamente ed esclusivamente per un determinato ordinamento giuridico e non hanno la pretesa né la capacità di valere per ordinamenti giuridici diversi. Siffatte teorie non hanno nulla a che fare con la scienza ermeneutica del diritto e rientrano interamente nella metodologia ermeneutica. Debbono perciò essere tenute distinte, in materia di interpretazione del diritto, teorie generali e teorie positive: le une riguardano ogni configurabile attività interpretativa per ogni configurabile ordinamento giuridico; le altre, invece, studiano gli speciali mezzi interpretativi che meglio si adattano alla conoscenza di un ordinamento giuridico determinato, o che – come avviene nell’art. 12 delle preleggi al nostro codice civile anche con riferimento all’interpretazione sistematica – sono espressamente predisposti, anche se spesso pleonasticamente, dallo stesso diritto positivo come vincolo alla interpretazione delle proprie disposizioni. Va da sé che soltanto le prime e non anche le seconde appartengono alla scienza teorica del diritto e alla sua teoria generale[159].

I principi generali, che guidano l’interpretazione e colmano le lacune della legge, sono attinti sempre meno dal codice civile e sempre più dalle c.d. leggi speciali, che “sottraggono a mano a mano intere materie o gruppi di rapporti alla disciplina del codice civile, costituendo micro – sistemi di norme, con proprie ed autonome logiche”[160].

I giuristi per raggiungere i fini che sono propri della loro scienza, per interpretare cioè il diritto vigente, per svilupparlo secondo le esigenze mutevoli ed i bisogni sempre nuovi della vita sociale e per comporne le norme in armonico sistema, seguono regole determinate, applicano procedimenti logici particolari e speciali sistemi di ragionamento che non coincidono sempre con la logica empirica[161].

Il complesso di questo regolamento normativo forma la tecnica giuridica.

Tuttavia, giova ricordare che il tecnico deve cercare in tutti i modi di far sì che la costruzione giuridica imposta dalle disposizioni di legge risponda alla realtà sociale; ma, se i mezzi tecnici di cui egli dispone per l’interpretazione della legge non consentono di conseguire tale risultato, non può tradire la propria missione, che è quella di indicare il diritto quale è, non quale dovrebbe essere. È quella la sua realtà, non questa. Diversamente operando, distinguendo con criteri arbitrari elaborazione scientifica ed elaborazione tecnica si perverrebbe ad una confusione tra la attività dell’interprete giurista e quella del legislatore[162].

L’interprete non è, né potrebbe essere, un puro applicatore di formule, un automa; egli ha pure dei limiti, dei vincoli nell’esplicazione della sua attività ermeneutica. Operando diversamente la certezza del diritto - araba fenice, vale a dire simbolo quasi irreale ed introvabile - diventerebbe mera utopia, illusione fantastica ed irrealizzabile. Senza precisi punti tecnici di riferimento avremmo il caos del linguaggio, dei concetti e degli istituti; tanto più che il profondo mutamento dei contenuti testuali esige una nuova metodologia.

Si è assistito negli scorsi anni a profondi mutamenti testuali. Questa distorsione metodologica è stata messa in luce da alcuni giuristi, ed in particolare da Nicolò, il quale, scrivendo dell’opera di Salvatore Pugliatti, afferma che questi “non nascose mai la sua insofferenza verso certi atteggiamenti di alcuni studiosi, e assistiamo ad una proliferazione di questo tipo di studi pronti a confondere, in una variopinta commistione, il piano sociologico e quello giuridico, o a strumentalizzare i valori giuridici per l’esaltazione di ideologie politiche. Oggi questo fenomeno è sempre più ricorrente e non può non riconoscersi che tanta parte di quella che appare essere la crisi del diritto, dipende da questa confusione e dallo scarso rigore, che induce a superficialità, ad approssimazioni e che spesso non permette di distinguere tra un contributo che pretenda di essere scientifico e qualsiasi articolo di un giornale più o meno impegnato. Molte persone che oggi scrivono e parlano di diritto, spesso con una presunzione non inferiore alla superficialità, farebbero bene a leggere e a meditare l’opera scientifica di Pugliatti per apprendere con umiltà come e con quali intenti si possa e si debba fare opera di scienza”[163].

Gli interventi legislativi, particolarmente incisivi e notevoli dopo le due grandi guerre della prima metà del secolo scorso, hanno apportato anche nel sistema giuridico le profonde innovazioni sopra ricordate, che hanno dato al diritto privato una differente connotazione, più sensibile ai segni dei tempi ed alle istanze talora pressanti dirette ad una maggiore, nuova e differente tutela di situazioni giuridiche soggettive, soprattutto non patrimoniali e che attengono alla sfera della persona[164].



* Il presente scritto è stato realizzato nell’ambito di una più ampia ricerca in corso, effettuata con fondi erogati dall’Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Economia, Dipartimento di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, sul tema: “I nuovi danni e le funzioni della responsabilità civile. I nuovi profili della interpretazione giuridica”.

 

** Dipartimento di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, Università degli Studi di Palermo.



[1] Il termine ermeneutica ha radici classiche perché deriva dalla parola greca έρμηνεύω, che significa interpreto, spiego e che trova la sua origine in ̉ ̉Ερμης, Hermes, il padre della parola, il dio della eloquenza, messaggero di Zeus, è la parola personificata, il λόγος.

[2] HEIDDEGER, Die Zeit des Weltbildes (1938), in Holzwege, Frankfurt a.M., 1950 (trad. It. Sentieri interrotti, a cura di P. CHIODI, Firenze, 1968).

[3] VERRA, voce Ermeneutica, in Enc. Ital., Appendice, 2000, Roma, MM, 599. Le problematiche legate alla ermeneutica nel pensiero contemporaneo sono state oggetto di approfonditi studi di VATTINO, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Milano, 1985; ID., Oltre l’interpretazione, Roma-Bari, 1994, secondo cui la questione dell’ermeneutica, e più in particolare della filosofia ermeneutica, non può essere assolta mediante un discorso meramente descrittivo del carattere ermeneutico di qualsiasi forma di coscienza e di esperienza, atteso che tale discorso corre il rischio di rimanere ancora una volta impigliato in una concezione metafisica della filosofia e della storia. “Tale rischio può essere evitato soltanto cercando una sorta di legittimazione epocale della filosofia ermeneutica proprio agli esiti della modernità, come conclusione della storia della metafisica” (VERRA, op. e loc. ult. cit.).

[4] Questo tema sarà oggetto di successive riflessioni. Per il momento si rinvia ad un recente contributo: IUDICA, Interpretazione giuridica e interpretazione musicale, in Riv. dir. civ., 2004, 467. L’A. osserva che lo studioso del diritto positivo si trova in una posizione di maggior vantaggio e, ad un tempo, di maggior svantaggio rispetto allo studioso di filosofia del diritto: di svantaggio perché al secondo è concessa una sconfinata libertà per la scelta dei criteri per raggiungere l’obiettivo di individuare il significato normativo del fatto o dell’atto giuridico da interpretare, di vantaggio perché il legislatore gli ha fornito il criterio e la guida per la interpretazione (op. cit., 468).

[5] BETTI, Teoria generale della interpretazione, 2 voll., Milano, 1955; e già prima ID.,  Teoria generale della interpretazione, Torino, 1948. BETTI affermò l’esistenza di una scala gerarchica fra le diverse storiografie: quella in generale che fa appello alle comuni categorie economico-etiche, e di esse si ritiene pago per chiarire la logica delle azioni, ma ci sarebbe, una “storiografia di grado superiore”, la storiografia giuridica, che utilizzerebbe gli strumenti concettuali della  dogmatica che, come è indispensabile all’interpretazione direttiva della condotta, è altresì rispondente a una esigenza tecnica della storiografia giuridica, il ché ne fa una storiografia superiore così come quella dell’arte, della lingua, della scienza, della letteratura. La superiorità della storia giuridica è il risultato della identificazione che il BETTI fa della storia del diritto con il diritto come astrazione.

[6] RICCOBONO, voce Ermeneutica giuridica, in Enc. giur., Appendice 2000, Roma, 2000, 600; IUDICA, Interpretazione giuridica, cit, 472.

[7] BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, ristampa 1971, 35, con scritti inediti a cura di CRIFÒ.

[8] BETTI dedicò la propria ricerca scientifica alla ermeneutica con alcuni fondamentali contributi che coprono parecchi decenni: Le categorie civilistiche della interpretazione, in Riv. it. per le scienze giur., 1948, 34-92; ID., Teoria generale dell’interpretazione, cit.; ID., Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit.; ID., Interpretazione della legge e sua efficacia evolutiva, in Jus, 1959, 197-215; ID., L’ermeneutica storica e la storicità dell’intendere, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Univ. di Bari, 1961, 1-28.

In ordine, poi, agli studi dei singoli autori su BETTI, per tutti da ultimo: GRIFFERO, Interpretare. La teoria di E. BETTI e il suo contesto, Torino, 1988; A. ARGIROFFI, Valori, prassi, ermeneutica. E. BETTI a confronto con N. HARTMANN e H.G. GADAMER, Torino, 1994; L’ermeneutica giuridica di Emilio Betti a cura di V. FROSINI, F. RICCOBONO, Milano, 1994.

[9] CHIAZZESE, Introduzione allo studio del diritto romano, Palermo, 1961, 37 ed aa. cit. alla nt. 9.

[10] Sulla promulgation del Code Civil des Français: DEZZA, Lezioni di storia della codificazione civile, Il Code Civil (1804) e l’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGD, 1812), Torino, 1998, 43.

[11] Art. 7: “A partire dal giorno in cui queste leggi entrano in vigore, le leggi romane, le ordinanze, le consuetudini generali o locali, gli statuti, i regolamenti, cessano di avere forza di legge generale o particolare nelle materie che sono oggetto delle dette leggi che formano il presente codice”.

[12] L’art. 3 ripropone, in buona sostanza, il testo dell’art. 7 (sopra riportato alla nota 3): “a datare dal giorno in cui il Codice Napoleone sarà posto in attività, le leggi romane, le ordinanze, le consuetudini generali o locali, gli statuti o regolamenti cesseranno di aver forza di legge generale o particolare nelle materie che formano oggetto delle disposizioni contenute nel Codice Napoleone”.

[13] DEZZA, Lezioni, cit., 43.

[14] «Ma vraire gloire, ce n’est pas d’avoir gagné quarante batailles; Waterloo effacera le souvenir de tant de victoires; ce que rien n’effacera, ce qui vivra éternellement, c’est mon Code Civil», come dichiarò l’Imperatore.

[15] NICOLÒ, voce Codice civile, in Enc. del dir., vol VII, Milano, 1960, 240 e ss. ed in part. 248; DI SIMONE, Istituzioni e fonti normative in Italia dall’antico regime all’unità, Torino, 1999, 113 e ss. ed in part. 128.

In ordine agli effetti di Napoleone sull’Italia e all’eredità napoleonica sul sistema giudiziario italiano: PILLEPICH, Napoleone e gli italiani, Bologna, 2005.

[16] Il Code Napoléon deve essere valutato nella sua ispirazione: “come l’espressione della scelta moderata e per qualche aspetto conservatrice a favore del ceto borghese che vedeva codificati gli obiettivi raggiunti sul piano civile e sociale con la Rivoluzione, ma doveva soprattutto apparire come la realizzazione di una sorta di amalgama tra le istituzioni storiche di Francia ed il droit intermédiaire. La sapiente equilibrata fusione tra questi elementi realizzata dal Code Napoléon era testimoniata dai contenuti essenziali delle sue norme che disciplinavano e caratterizzavano ad un tempo la vita di una intera società civile”, così testualmente GHISALBERTI, Unità Nazionale e unificazione giuridica in Italia, Bari, 1979, 125.

Sui rapporti tra il codice civile del 1865 ed il codice Napoleone: NICOLÒ, voce Codice civile, cit., 242.

[17] NICOLÒ, voce Diritto civile, in Enc. del dir., XII, Milano, 1964, 245, dove così testualmente si legge: “I limiti territoriali del diritto civile potevano non essere determinati dalla natura dei soggetti ai quali le norme contenute nei codici erano presumibilmente destinate ma dalla oggettiva configurazione di quegli istituti, sottoposti alla medesima disciplina qualunque ne fosse il riferimento soggettivo”.

[18] Art. 4: “Le juge qui refusera de juger, sous prétexte du silence,  de l’obscurité ou de l’insuffisance de la loi, pourra étre pour suivi comme conpable de déni justice” (Se un giudice ricuserà di giudicare sotto il pretesto del silenzio, oscurità o difetto della legge, si potrà agire contro di lui come colpevole di denegata giustizia).

Secondo MONTESQUIEU: “il giudice è la bocca che pronunzia le parole della legge, un essere inanimato che non può moderarne né la forza né il rigore”, Lo spirito delle leggi, Milano, IV, 1999, 818, e così definisce la legge: “i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”. Definizione questa sottoposta a critica sia per la sua oscurità, sia perché non chiarisce di quali rapporti intende parlare; ed ancora le leggi non sono rapporti, ma a questi subordinati.

[19] DEZZA, Lezioni, cit., 48; DI SIMONE, Istituzioni, cit., 128.

[20]Il est défendu aux juges de prononcer par voie de disposition générale et reglementarie sur les causes qui leur sont soumises”. È proibito ai giudici di pronunziare in via di disposizione generale o di regolamento nelle cause di loro competenza.

[21] Un giurista francese del XIX secolo così si esprimeva: «Je ne connais pas le droit civil, je ne connais que le code»; ed in Germania si affermava: «quod non est in paragraphis non est in mundo», che ricorda quanto già affermavano i glossatori: “quod non agnoscit  glossa, ne angnoscit curia”.

[22] Pare che Napoleone avrebbe detto: “Mon code est perdu”, quando venne pubblicato il primo commentario al suo codice.

[23] Non fu diverso l’orientamento di Giuseppe II d’Austria nel 1786, di Federico II quando entrò in vigore il codice prussiano, dell’Assemblea Costituente francese, col decreto del 27 novembre - 1° dicembre 1790; così come il Papa Pio IV, dopo il concilio di Trento con la bolla Benedictus Deus. Il principio romano quod principi placuit legis habet vigorem, inizialmente attribuito al solo imperatore, divenne principio applicato ai re, ciascuno dei quali era investito della suprema autorità di comando precorrendo l’asserzione, che poi trovò diffusione, del monopolio giuridico statale.

[24] PADOA SCHIOPPA, Dal Code Napoléon al codice civile, in Il codice civile, Atti del convegno del cinquantenario dedicato a Francesco SANTORO-PASSARELLI (Roma 15-16 dicembre 1992), Roma, 1994 (atti del convegno Lincei, 106), 50 e ss..; DEZZA, Lezioni, cit., 80 e s.

Il codice Albertino affermava un principio in coerenza alle idee dominanti in materia di interpretazione delle norme perché all’art. 17 così statuiva: “le sentenze dei magistrati non avranno mai forza di legge”. Precisazione questa diretta a fugare in maniera definitiva ogni possibile dubbio sul ripristino di qualsiasi forma di diritto giurisprudenziale ed a non consentire l’introduzione nel sistema giuridico di una sua possibile integrazione mediante le sentenze dei giudici, i quali dovranno interpretare le leggi applicandole al caso concreto senza travalicarne i dettami ed estenderne l’efficacia, come era stato affermato in maniera inequivocabile dai principi rivoluzionari. GHISALBERTI, Unità Nazionale, cit., 276.

[25] Il quale così recitava: “Nell’applicare la legge non si può attribuirle altro senso che quello fatto palese dal proprio significato delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.

Qualora una controversia non si possa decidere con una precisa disposizione di legge, si avrà riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe: ove il caso rimanga tuttavia dubbio, si deciderà secondo i principi generali del diritto.

Il significato proprio delle parole, di cui all’art. 12, 1° comma disp. prel., ricorda quanto diceva LINNEO: Nomina si nescis, perit et cognitio rerum, se non hai un nome non percepisci nemmeno la cosa.

[26] Art. 4: le leggi penali e quelle che restringono il libero esercizio dei diritti o formano eccezione alle regole generali o ad altre leggi, non si estendono oltre i casi e tempi in esse espressi”; cfr. art. 14 del codice vigente sulla applicazione delle leggi penali ed eccezionali, norma questa che completa l’art. 12 e la disciplina della interpretazione.

[27] È la concezione statale del diritto dalla quale KELSEN ha tratto la dottrina pura del diritto: Grenzen zwischen iuisticher und soziologischer methode, Vortrang, Tübingen, 1911; per gli studi sulla interpretazione: ID., Zur Theorie der Interpretation, in Revue Internationale de la theorie du droit, 1934; ed anche Reine Rechtslehere, Wien, 1960, trad. it. a cura di M.G. LOSANO, Torino, 1966.

[28] SAVIGNY, Sulla vocazione del nostro tempo per la legislazione e la scienza giuridica, Von Beruf unserer Zeit fǖr Gesetzgebung und Rechtsuissenschaft, Heidelberg, 1814, 3^ ed.

[29] L’occasione di elaborare la teoria sopra riportata fu data al Savigny da uno studio di A. THIBAUT (Sulla necessità di un codice civile generale per la Germania, Ǖber die Nothwendingkeit einess all gem bǖrgul. Rechts, fǖr Deutschland, Heidelberg, 1844), al quale il Savigny contrappose, nello stesso anno, lo scritto citato alla nota due.

[30] Come pensavano la scuola dell’esegesi e, in buona sostanza, anche SAVIGNY (Juristische Methoden-lehre, nach der Ausarbeitung des Jacob Grimm, a cura di G. WESEMBERG, Stuttgart, 1951). Su questo lavoro: MARINI, Savigny e il metodo della scienza giuridica, Milano, 1966, con profonde osservazioni ed acute riflessioni: oggetto della interpretazione è il pensiero della legge, il suo fondamento (Grund) che, tuttavia, ha una sua limitata sfera di azione.

Per una analisi del pensiero di Savigny: PARESCE, Interpretazione (filosofia),in Enc. del dir., XXII, Milano, 1972, 190 ss., che riporta un “passo particolarmente significativo, in quanto riassume icasticamente non solo il pensiero del giovane Savigny, ma a distanza di due secoli il pensiero malamente espresso, ma operante, della maggior parte degli interpreti dei nostri tempi, e circola nelle varie formulazioni che hanno accompagnato la travagliata vita del diritto”.

[31] Les cinq codes, annotés de toutes les décisions et dispositions, interprétatives, modificatives et applicatives, par J..B. SIREY, Paris, MDCCCXXXIV.

[32] Esegesi e sistema, dunque, esaminati alla luce dei reciproci nessi: verranno in tal modo realizzati quella correlazione ed il relativo influsso della teoria sulla pratica e viceversa, che il Savigny aveva studiato ed ammirato nel diritto romano e che voleva estesi al diritto attuale: MARINI, Savigny e il metodo della scienza giuridica, Milano, 1967; PARESCE, Savigny, in Nss. D.I., Torino, 1969, XVI, 663 ss.

[33] D 1, 3, 10.

[34] IULIANUS, libro LVIIII digestorum.

[35] Legalità non è lo stesso che moralità: se la determinazione della volontà avviene conformemente alla legge morale, ma non per la legge, bensì per un sentimento sufficiente a determinare la volontà, l’azione avrà si legalità ma non moralità.

In generale sulla legalità FOIS, Legalità ( principio di), in Enc. del dir., XXIII, Milano, 1973, 659, ss. Secondo l’A. il problema della legalità, ed i profili nei quali si rivela la crisi del corrispondente principio, pongono di fronte all’alternativa, allo stato degli atti insolubile, di constatare da un lato l’impossibilità di rinunziare a pensare in termini di “legalità” (e quindi anche alla impossibilità di rinunziare ad individuare ed applicare tale principio nel nostro ordinamento positivo), e dall’altro lato di constatare la radicale inconsistenza (teorica e pratica) che il principio stesso rivela di fronte all’applicazione di quel criterio di “effettività” che sembra ormai caratterizzare profondamente e diffusamente la scienza giuridica (così testualmente op. cit., 703). L’A. conclude affermando che ci troviamo di fronte ad esigenze irrimediabilmente contraddittorie dalle quali non può derivare altro che una conclusiva dichiarazione di impotenza.

[36] Peraltro il sistema dell’art. 1 disp. prelim. del cod. civ. va integrato con i regolamenti comunitari e, entro certi limiti, con le direttive comunitarie che sono dotate di una valenza normativa che supera quella della legislazione nazionale, ed ancora con le norme di diritto internazionale consuetudinario, con le leggi regionali e con le normative create entro la competenze riconosciuta dagli organi in materia di lavoro con efficacia generale.

[37] RICCOBONO, Jus est ars boni et aequi, in Ann. Catania, 1947, 38 ss.; ID., Aequitas, in N.D.I., 1, 1, 210 e ss., dopo avere svolto una opera di rigorosa ricostruzione storica attribuisce al brocardo non un valore puramente ideale, ma un significato completo che riflette e vuole comporre il contrasto dei giuristi romani tra jus Quiritium e jus honorarium, cioè tra il formalismo persistente del diritto arcaico e la pressante richiesta “di un più largo e libero respiro della vita giuridica”; FROSINI, voce Equità (nozione), in Enc. del dir., XV, Milano, 1966, 73 ed ivi ampia letteratura filosofica e giuridica; GIANNINI, voce Equità, in Enc. filosofica, II, Firenze, 1967, 902.

[38] GUARINO, voce Equità (diritto romano), in Nss. D.I., VI, Torino, 1960, 619 e ss. Nel dualismo del jus civile e dello jus honorarium non venne mai intaccata la persuasione che solo il jus civile era diritto. All’aequitas si ricorre frequentemente come il principio mediatore di questa evoluzione: un unicum nella storia, tanto e profondamente inserita nelle più intime strutture politiche e sociali della Roma repubblicana, così CALASSO, voce Equità (storia), in Enc. del dir., vol. XV, Milano, 1966, 68.

[39] ARISTOTELE, Etica Nicomachea, a cura di PLEBE, Bari, 1957, 155 ss.; S. ROMANO, voce Principio di equità (dir priv.), in Enc. del dir., XV, Milano, 1966, 83; Aristotele ha trattato dell’equità anche nella Retorica, a cura di PLEBE, Bari, 1961, 67 e s. dove osserva che “l’equo sembra essere giusto, ma esso è il giusto che va oltre la legge scritta”; FROSINI, voce Equità (nozione), cit., 70.

[40] Così: LALANDE, Dizionario critico di filosofia, Milano, 1971, 258.

[41] Incisivo ed efficace è il concetto di equità riportato da GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Bari, 1995, estratto dal Fragmentus Pregense: “Nihil autem est aequitas quam Deus. Sitalis aequitas in voluntate hominis est, iusticia dicitur. Quae talis voluntas redacta in praeceptionum, sive scripta, sive consuetudinaria, ius dicitur”.

[42] CASTRONOVO, La nuova responsabilità civile. Regola e metafora, Milano, 1991, 110, a proposito del “danno biologico” senza limiti, parla di “confusione di lingue”.

[43] C.Cost. sent. 14 luglio 1986 n° 184, ha statuito che il diritto vigente individua nell’art. 2043 cod. civ., in relazione all’art. 32 cost., la disposizione che permette, in ogni caso, la risarcibilità del pregiudizio subito ed ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ. nella parte in cui prevede la risarcibilità del danno derivante dalla lesione del diritto alla salute soltanto in conseguenza di un reato e ciò con riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 32 Cost., in Foro it., 1986, I, 2053, con nota di PONZANELLI, La Corte Costituzionale, il danno non patrimoniale e il danno alla salute, 1986, I, 2976, e con nota di MONATERI, La costituzione ed il diritto privato: il caso dell’art. 32 cost. e del danno biologico (“Staatrecht vergeht, privatrecht besteht”); GIUSTI, Danno non patrimoniale e danno alla salute di fronte alla corte costituzionale, in Nuove leggi civ., 1986, 611; ALPA, Danno biologico – Questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 cod. civ., in Nuova giur. civ., 1986, I, 534; SCALFI, Reminescenze dogmatiche per il c.d. danno alla salute, un ripensamento  della corte costituzionale, in Resp. civ., 1986, 520.

Per una completa analisi del danno non patrimoniale nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, per una esegesi dell’art. 2059 cod. civ. e per il riconoscimento in via di interpretazione del danno morale negli artt. 1382 e 1383 (Des dèlits et des quasi-dèlits) del code Napoléon, CURSI, Il danno non patrimoniale e i limiti storico-sistematici dell’art. 2059 cod. civ., in Riv. dir. civ., 2004, 1, 865; ID., Aa.Vv., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti reali, Napoli, 2003, 103 ss.

[44] Cass. 31 maggio 2003 n° 8827 e 31 maggio 2003 n° 8828, in Foro it., 2003, I, 2272, con completa nota redazionale di LA BATTAGLIA e con nota di NAVARRETTA, Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il nuovo diritto vivente, 2277; BUSNELLI, Chiaroscuri d’estate, la Corte di cassazione e il danno alla persona, in Danno e resp. civ., 2003, 816; PONZANELLI, Ricomposizione dell’universo non patrimoniale: le scelte della Corte di Cassazione, Ibidem, 829; PROCIDA, MIRABELLI, DI LAURO, L’art. 2059 cod. civ. va in paradiso, Ibidem, 831; CENDON, Anche gli amanti non si perdono l’amore non si perderà, - impressioni di lettura su Cass.. 8828/2003, in Resp. civ., 2003, 675; BARGELLI, Danno non patrimoniale  ed interpretazione costituzionale orientata dall’art. 2059 cod. civ., Ibidem, 691; ZIVIZ, E poi non rimase nessuno, Ibidem, 703; VIOLA, Il danno esistenziale nella responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Cons. Stato, 2003, II, 1993; PISELLI, Necessaria la ricerca di un giusto equilibrio per evitare duplicazioni nel danno alla persona, in Guida al diritto, 2003, fasc. 25, 54, che rileva come le due sentenze della Cassazione (8827 e 8828 del 2003) rappresentano un mutamento di indirizzo diretto a colmare una lacuna legislativa ed a incanalare il risarcimento verso la più semplice ripartizione tra danno patrimoniale e non patrimoniale, dato che nel caso di uccisione di un congiunto la lesione che si vuole risarcire è qualcosa di diverso dal danno biologico e da quello morale soggettivo trattandosi di indennizzo legato alla intangibilità della sfera degli affetti. Infine FRANZONI, Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta per il danno alla persona, in Corriere giur., 2003, 1031.

[45] CASTRONOVO, La nuova responsabilità, cit., 93, ritiene che si è verificata una fuga dall’art. 2059 cod. civ., fuga che è stata sancita dalla Corte Costituzionale con la pronuncia 14 luglio 1986 n. 184, che appartiene alle sentenze c.d. interpretative, anche se si caratterizza ulteriormente entro tale ambito.

CURSI, Il danno non patrimoniale e i limiti, cit.: secondo l’A., fin quando la norma di cui all’art. 2059 cc. “continuerà a far parte del nostro sistema di diritto, essa sarà sempre fonte di ambiguità” (pag. 907), ed ancora: “il danno biologico appare così formalmente autonomo rispetto al danno morale soggettivo e il suo risarcimento libero da qualunque vincolo legislativo” (pag. 909).

[46] Cass. 31 maggio 2003 n° 8827.

[47] In attesa di una disciplina organica sul danno biologico, il risarcimento dei danni alla persona di lieve entità, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli, è tutelato dal d.l. n. 857 del 1976, convertito con modificazioni dalla legge n. 37 del 1977 e modificato dalla legge 5 marzo 2001 n. 57 (art. 5 comma 2°), ed è effettuato secondo i criteri e le misure seguenti: a) a titolo di danno biologico permanente è liquidato per i postumi da lesioni pari o inferiori al 9% sulla base di ogni punto percentuale di invalidità; b) a titolo di danno biologico temporaneo è liquidato un importo di £. 70.000 per ogni giorno di inabilità assoluto.

È pacifica, in giurisprudenza, l’applicazione di detta normativa a situazioni in tutto e per tutto analoghe per un trattamento in modo uniforme e per esigenze di equità, e quindi l’applicazione dei parametri introdotti dalla legge n. 57 del 2001, per esigenze di parità di trattamento, anche a casi non strettamente rientranti nell’ambito di applicazione della legge, nonché alla liquidazione del danno alla persona di entità maggiore, e ciò conformemente al disposto della normativa citata.

[48] In Cons. Stato, 2003, II, 1993 con nota di VIOLA, Il danno esistenziale nella responsabilità civile della pubblica amministrazione dopo gli interventi della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale; NAVARRETTA, La Corte Costituzionale e il danno alla persona in fieri; CENDON e ZIVIZ, Vincitori e vinti (.... dopo la sentenza n° 233/2003 della Corte Costituzionale), in Giur. it., 2003, 1777; BONA, Il danno esistenziale bussa alla porta e la corte costituzionale apre (verso il “nuovo” art. 2059 cod. civ.), in Danno e resp., 2003, 941; CRISCENTI, Una diversa lettura dell’art. 2059 cod. civ., Ibidem, 957; TROIANO, Irresistibile ascesa del danno non patrimoniale, Ibidem, 970; PONZANELLI, La Corte Costituzionale si allinea alla Corte di Cassazione, Ibidem, 962; PROCIDA, MIRABELLI, DI LAURO, Il sistema di responsabilità civile dopo la sentenza della Corte Costituzionale, Ibidem, 964; ZIVIZ, Il nuovo volto dell’art. 2059 cod. civ., Ibidem 1041; VENTURINI, Brevi considerazioni sulla sentenza n. 233/2003 della Corte Costituzionale, in Nuovo dir., 2003, I, 917.

[49] Principio affermato da Cass. Sezioni Unite, 15 ottobre 1999 n° 716, in Giust. Civ., 1999, I, 3243, con nota di MARTINO, Il giudizio di equità necessario secondo le Sezioni unite: profili di illegittimità costituzionali, secondo l’A. non può essere condiviso l’assunto della S.C., secondo cui la sindacabilità del giudizio equitativo, per violazione delle norme costituzionali e del diritto comunitario di rango sovraordinato, consentirebbe di superare ogni dubbio di incostituzionalità, escludendo che il giudizio equitativo venga rimesso all’arbitrio del giudice, e possa, così, contrastare con il diritto alla tutela giurisdizionale garantito dall’art. 24 Cost. Ed ancora l’A. auspica un eventuale ripensamento della Corte di Cassazione che verrebbe salutato con favore (3258 s.); ed in  Guida al diritto, 1999, fasc. 42, p. 54 con nota di SACCHETTINI, Il potere del giudice di “creare” una sua legge può minare i principi fondamentali dello Stato, il quale ritiene che consentire al giudice di disattendere il diritto vigente e di “creare” una sua legge personale, sia pure entro il limiti indicati dalle Sezioni unite, può costituire un attentato ai principi fondamentali dello Stato di diritto, e quindi non appare ultroneo il dubbio di legittimità costituzionale di un sistema così congegnato, che finora ha retto da un lato, per i correttivi adesso soppressi, dall’altro in considerazione dell’infimo valore delle cause sottoposte a questo regime, e si potrebbe giungere anche all’incertezza nei più elementari rapporti giuridico-economici.

[50] Con la sentenza 11 gennaio 2005 n° 382, in Guida al Diritto, 2005, fasc. 11, p. 55, in applicazione del principio affermato dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 206 del 2004), la S.C. ha statuito che la regola equitativa non deve essere tratta dalla disciplina in concreto dettata dal legislatore, ma nella individuazione di detta regola, anche al di fuori della stretta legalità e dovrà avere cura che essa non contrasti con i principi ai quali si è ispirato il legislatore nel dettare una determinata disciplina. In buona sostanza alla luce del dettato dagli artt. 24 e 101 Cost. e 113, 2° comma, cod. proc. civ. il giudice di pace che decide secondo equità può creare la regola più consona alla fattispecie in esame, con nota di G. FINOCCHIARO, Il riconoscimento di un potere speciale è in contrasto con il principio di legalità, 63, secondo cui le motivazioni del S.C. non sarebbero sufficienti ad impedire che in futuro la Cassazione pervenga a decisioni difformi e che alcuni passaggi della motivazione non sono convincenti e fra loro non pienamente conciliabili. Si legge ancora testualmente che “l’equità si presenta come un ossimoro da un lato è – per definizione – se non opposta, quanto meno distinta e diversa dal diritto; ma, dall’altro lato, nel contempo, è a propria volta regolata e prevista da norme di stretta legalità” (p. 65).

[51] BUSNELLI, Il danno biologico dal diritto viventeal diritto vigente”, Torino, 2001.

[52] Per una critica al concetto di danno esistenziale: PONZANELLI, Critica del danno esistenziale, Padova, 2003.

[53] Una dottrina: CASTRONOVO, Danno biologico, Milano, 1998, passim, e prima in La nuova responsabilità, cit., 93 ss. e BIANCA, Diritto civile, vol. V, La responsabilità, Milano, 1994, 184, ritiene che unico parametro per la liquidazione del danno alla salute è quello equitativo, atteso che unica l’obbligazione risarcitoria e l’entità del danno alla salute dovrebbe intendersi inversamente proporzionale alla entità delle altre voci di danno liquidate: il danno patrimoniale e quello morale.

Per BIANCA (op. cit., 184) non avendo il bene – persona un valore economico, non è possibile una determinazione certa del danno e si impone, pertanto, una valutazione equitativa che è diretta a determinare la compensazione economica socialmente adeguata che richiede un giudizio di prudente e ragionevole apprezzamento della rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale, tenendo conto dei vari fattori incidenti sulla gravità della lesione: età, possibilità di recupero etc.

[54] Non è possibile citare la dottrina, atteso che, sul punto, oltre ad essere copiosissima è in continua affannosa ricerca di “paletti”. Tuttavia si segnala per l’ésprit de finesse, DI MARZIO, Il danno esistenziale e le sentenze gemelle, in Nuova giur. civ. comm,. 2004, 629. L’A. prende in esame anche le sentenze n° 8827 e 8828 del 31 maggio 2003, definite le “Copie carbone” (il Presidente della Corte decidente era in tutte e due il dott. Carbone). L’A., dopo una serie di brillanti ed acute osservazioni, rileva che le citate sentenze non hanno realizzato l’intento di fare chiarezza dato che le riviste giuridiche che le hanno pubblicato sono state oggetto di differenti letture (a volte anche notevoli). Certo è che l’art. 2059 “è morto: la sentenza n° 8828 dice chiaramente che la norma di gestione dell’illecito aquiliano, anche in caso di danno non patrimoniale, è l’art. 2043” (cit., 641).

Per una teoria sulla “decostruzione” del danno esistenziale: CRISCENTI, Persona e risarcimento, Padova, 2005.

[55] NAVARRETTA, La Corte Costituzionale e il danno alla persona “in fieri”, cit., osserva come la modalità della liquidazione del danno biologico è stata risolta con il ricorso alla determinazione tabellare del loro valore, dato che l’unità di misura per la stima del danno biologico è la percentuale di invalidità, non altrettanto “si può dire per gli altri pregiudizi non patrimoniali, per i quali è necessario approfondire una tecnica di orientamento della liquidazione giudiziale, diversa rispetto a quella elaborata per il danno biologico, ove si disponeva di una unità di misura di riferimento” (la percentuale di invalidità), op. cit., 2205.

Peraltro, con la sentenza n° 10725 dell’11 agosto 2000, la Corte di Cassazione ha statuito che il giudice, nell’adozione del criterio tabellare, non è vincolato alle tabelle dei punti in uso presso la propria sede giudiziaria, godendo del potere equitativo di adottare quello in uso presso altri uffici, con l’obbligo, in tal caso, di motivare la scelta avuto riguardo al fatto che la finalità della tabella è quella di uniformare il più possibile i criteri per la liquidazione del danno con riferimento alla media dei precedenti in ciascun ambito giudiziario.

[56] Tale è il consolidato indirizzo giurisprudenziale, che considera quello letterale il criterio ermeneutico di carattere prioritario e ciò ai sensi dell’art. 12 delle preleggi, ex pluribus: Cass. 11393 del 1993 e 7279 del 1991.

[57] ROSCOE POUND, Introduction to the philosohy of law, in Yale University Press, 1948, p. 36 ss.; ID., The Development of American Law, in Law Quarterly Review, 1951, 49, che enuclea le categorie di: standard of reasonableness, standard of fair conduct, standard of unfair, standard of truthfulness, standard of due care, standard of due process of law. Per una letteratura su Roscoe Pound: FALZEA, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in Riv. dir. civ., 1987, I, 1; PARESCE, Presentazione a Pound, Lo spirito della Common Law, Milano, 1970, 5-24; Id., Interpretazione (filosofia del diritto), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 221; COTTA, Le basi storicistiche della concezione del diritto di Roscoe Pound, in Riv. intern. fil. dir., 1952, 51 ss.; FROSINI, Pragmatismo e naturalismo nel pensiero di R. Pound, ivi, 1953, 525 ss.; BOGNETTI, Il pensiero filosofico giuridico nord-americano nel XX secolo. I fondatori Holmes, Pound, Cardozo, Milano, 1958. Sul punto con riferimento ai diritti della persona: ZIINO, Diritti della persona e diritto al (pre)nome. Riferimenti storico-letterari e considerazioni giuridiche, in Giust. civ., 2004, 1, 372 e nt. 51.

[58] Storicamente è merito di alcuni studiosi: oltre ROSCOE POUND, LEVY-ULMANN, LAMBERT, PRINGSHEIM, BUCKLAND, MC NAIR, per citarne solo alcuni, avere dato inizio, con serietà di propositi e ampiezza di ricerca allo studio del diritto anglo-nordamerciano comparato con quello dell’Europa continentale e dell’America Latina, in particolare LEVY-ULMANN facilitò ai giuristi dell’Europa continentale la comprensione delle peculiarità fondamentali del diritto inglese.

[59] Introduzione alla sociologia del diritto, Bologna, 1972.

[60] ULPIANO parlava di utilitas singulorum. Per PUGLIATTI Diritto pubblico e privato, in Enc. del dir., XII, Milano, 1964, 738, la struttura del diritto privato è costituita da un complesso di istituti distinti tra loro, che hanno relazioni varie e presentano tessuti connettivi. Ed ancora si legge così testualmente: “si deve, dunque, andare alla ricerca di quel minimo comune denominatore, che consenta di individuare la natura dei singoli istituti e di collocarli nel campo del diritto privato”.

A proposito della differenza tra diritto privato e diritto civile giova riportare quanto si legge in NICOLO’, Diritto civile, in Enc. del dir., XII, Milano, 1964, 906: “Quel che si chiama diritto privato costituisce una rappresentazione di una parte della realtà sociale sub specie iuris, che si pone su un piano diverso da quella prospettiva che deve essere propria del diritto civile, nella quale non tanto la natura degli interessi,  quanto la struttura degli istituti e la validità dei principi che li animano sono i momenti che la caratterizzano, e conseguentemente che non può tra le due espressioni, che vogliono indicare diversi criteri di valutazione della realtà configurarsi un rapporto di continenza”.

[61] FERRARI, Privato e pubblico (sociologia del diritto) in Enc. del dir. vol. XXXV, Milano 1986, 689, da ultimo ID, Diritto e società. Elementi di sociologia del diritto, Roma-Bari 2004. L’A. prende in esame la società delle norme ed il cambiamento delle leggi in rapporto al potere politico ed alla globalizzazione economica.

[62] Sono gli argomenti del “geo diritto” presi in esame da IRTI, Norma e fatto, Milano, 1984; ID., Polemica dei concetti giuridici, Milano, 2004.

[63] CHIAZZESE, Introduzione allo studio del diritto romano”, cit., 37.

[64] ARENA, “Introduzione allo studio del diritto commerciale e titoli di credito”, Milano 1956, 8 ss.; G. FERRI, Diritto commerciale, in Enc. del dir., vol. XII, Milano, 1964, 922, che esamina il diritto commerciale nel periodo mercantilista; ASCARELLI, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa, Milano, 1962; ID., Sviluppo storico del diritto commerciale e significato della unificazione, in Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955; ASQUINI, Codice di commercio, in Enc. del dir., VII, Milano, 1960, 250 ss.

[65] Nel diritto romano il pretore è la viva vox iuris civilis, la cui attività è dominata dall’aspirazione di rendere il diritto sempre più adatto alla comune coscienza giuridica: questa rispondenza i romani designano con il termine aequitas, inteso come lo spirito che pervade tutto l’ordinamento pretorio, alla cui creazione ha partecipato non soltanto la lunga serie di magistrati succedutisi, ma anche, e forse principalmente, la giurisprudenza, col suo suggerimento e con la elaborazione dei mezzi tecnici di cui i magistrati si avvalevano nella loro opera innovativa (CHIAZZESE, Introduzione allo studio del diritto romano, 3^ ediz., Palermo, s.d. ma 1961, 138 e s.).

[66] FASSÒ, Legalità, in Enc. fil., III, Firenze, 1967, 1432; LALANDE, Dizionario critico di filisofia, Milano, 1971, 461; FOIS, Legalità (principio di), in Enc. del dir., XXIII, Milano, 1973, 659, secondo l’A. il principio dell’art. 101 cost. rappresenta il fondamento di costituzionalità del principio di legalità (op. .cit., 685 ss.).

[67] La massima è attribuita a vari giuristi romani: anche a Papiniano ed è rivolta contro il rigoroso formalismo del diritto quiritario e quindi il suo significato più profondo è di rivolta contro l’antico formalismo. Contrasta con la rigidità di detto metodo, quello ex voluntate, più recente, in tutto conforme all’aequitas (CHIAZZESE, Introduzione, cit., 165 s.).

[68] In Foro it., 1977, I, 1482, che ha affermato, senza possibilità di equivoci, che l’associazione “anche se non dotata di personalità giuridica, costituisce un soggetto, in quanto è considerato dall’ordinamento come centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive del tutto distinto dai soggetti che la compongono”.

[69] Così testualmente BUSNELLI, L’inizio della vita umana, in Riv. dir. civ., 2004, I, 567, il quale così continua: “Il legislatore si è tenuto fuori da questo imponente movimento del “diritto vivente” che ha consentito alla Suprema Corte di concludere che se “ogni persona è soggetto, non ogni soggetto è persona”, e non ha mancato, peraltro, di prenderne atto traendone le conseguenze”.

Sul punto tornano attualissime le considerazioni di ORESTANO, Diritti soggettivi e diritti senza soggetto. Linee di una vicenda concettuale, in Jus, 1960, 149 e ss., in particolare 190 ss.; nonché quelle di PUGLIATTI, Il trasferimento delle situazioni soggettive, Milano, 1964, il quale parla di ciclo per cui si realizza la trasmutazione del valore economico in valore giuridico, si tratta “della trasmutazione di ogni altro valore in valore giuridico (ammesso, sulla base di una visione larga dell’esperienza giuridica, che questa non è costituita soltanto in base a valori economici)” (pag. 66).

[70] CARRESI, Il contratto, in Trattato di diritto civile diretto da CICU e MESSINEO, Milano, 1974, 787; F. PANUCCIO, Riduzione ad equità, in Digesto civ., IV edizione, XVII, Torino, 1998, 603 e ss.; GABRIELLI, Alea e rischio nel contratto, Napoli, 1998, 71 ss. e passim.

[71] L’offerta di riduzione ad equità rientra nella categoria dei negozi unilaterali recettizi ed ha elementi in comune con l’offerta di modificazione del contratto prevista dall’art. 1450 cod. civ. (cfr. nt. 15). Non è necessario, per il perfezionamento della rettifica, l’accettazione della parte alla quale è diretta l’offerta: F. PANUCCIO, Riduzione ad equità, cit., 607; BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994, 399; TARTAGLIA, Onerosità eccessiva, in Enc. del dir., vol. XXX, Milano, 1980, 167.

[72] LALANDE, voce Logica, in Diz. crit. di fil., Milano, 1971, 480.

[73] Così testualmente PUGLIATTI, Il trasferimento delle situazioni soggettive, cit., 53.

[74] PARESCE, Interpretazione (filosofia), cit., 223, il quale così continua: la politica “inerisce alle strutture stesse del sistema giuridico il quale, nelle sue singole norme, deve essere interpretato, nello spirito di quella costituzione materiale, che ne costituisce la norma fondamentale nei limiti in cui la legislazione successiva, che viene a far parte del sistema e che, pertanto, la corregge od arricchisce, e non vi abbia introdotto nuances  diverse, che, nel loro insieme, costituiscono una nuova Weltanschauung, cioè una manifestazione media dell’orientamento politico di una consociazione”.

[75] PARESCE, Interpretazione (filosofia), cit., 179; GIACOMAZZI, Aspetti e caratteri dell’attuazione spontanea del diritto, in Problemi fondamentali del diritto, Palermo, 1935, 321 ss.

[76] PUGLIATTI, La giurisprudenza come scienza pratica, in Grammatica e diritto, Milano, 1978, 141.

[77] PUGLIATTI, La giurisprudenza come scienza pratica, cit., 124.

[78] BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, 1^ ed., Milano, 1949, 2^ ed. a cura di CRIFÒ, Milano, 1971, oltre all’autointegrazione, individua una esigenza di etero-integrazione che si verificherebbe nell’apprezzamento secondo equità (pag. 51 e ss.), nella discrezionalità amministrativa (57); sul punto formula qualche dubbio PUGLIATTI, Gli istituti del diritto civile, Milano, 1943, 54 ss.; ID., La giurisprudenza come scienza pratica, cit., 124, nt. 51.

[79] PUGLIATTI, op. ult. cit., 141, il quale così testualmente continua: “occorre, inoltre, tener presente che il ciclo che va dalla scienza all’attività del legislatore, e viceversa, e si ferma alle formulazioni astratte, alle quali si rifà il giudice per le applicazione concrete, segue anche un cammino diverso. L’applicazione, infatti, rivela spesso carattere di tipicità e si fissa in formulazioni astratte: dalla decisione del caso singolo nasce la formulazione giurisprudenziale che entra a far parte di un determinato ambiente culturale. Anch’essa riveste la natura dell’attività del legislatore e del giurista” (op. cit., 142).

[80] IRTI, Testo e contesto, una lettura dell’art. 1362 codice civile, Padova, 1996, 162. L’A. cita (nt. 79) ASCOLI, La interpretazione delle leggi, Roma, 1928, rist. a cura di F. RICCOBONO, Milano, 1991, pag. 58; proprio ASCOLI, Interpretazione delle leggi, cit., 102, afferma che la funzione dell’interpretazione è di “creare una norma che si ponga come identica alla legge positiva”.

[81] IRTI, Testo e contesto, cit., 13 e s. L’A. riporta il quadro degli studi linguistici di P. PIOVANI, Mobilità, sistematicità, istituzionalità della lingua e del diritto, in La filosofia del diritto come scienza filosofica, Milano, 1963, 103 e s.

Peraltro già PUGLIATTI, Sistema grammaticale e sistema giuridico, in Grammatica e diritto, Milano, 1978, 49 ss., a proposto dell’opera di P. PIOVANI, afferma che la stessa enuncia una fondamentale “visione dinamica della lingua e del diritto, la quale non deve perdere mai di vista la mobilità invincibile dell’una (e dell’altra)”, e così, testualmente, continua PUGLIATTI “espresso in altri termini codesto carattere dei due fenomeni, ha un carattere eracliteo e bergsoniano, che contraddice alla stabilità, la quale dà forma all’informe e impedisce che tutto anneghi nel flusso perenne” (pag. 49).

[82] ZIINO, In memoria di Salvatore Pugliatti, nel decennale della morte, in Dir. fam., 1987, 18.

[83] Leggiamo in PUGLIATTI: “ma ormai da anni la considerazione puramente formalistica cede il terreno di fronte ad una considerazione più ricca e più piena, quella dell’esperienza giuridica, nelle sue molteplici articolazioni e sfaccettature. E non è consentito al giurista che sia – come deve essere – sensibile alla funzione del diritto, oltre che al fascino degli schemi concettuali, chiudere gli occhi di fronte a quelle correnti che tentano di valorizzare il diritto vivente e l’attuazione spontanea. Il pre ed il meta giuridico, il sociologico non si possono facilmente accantonare. Il diritto è espressione della concreta realtà della società umana e non si lascia privare di quella dimensione, che è costituita dal dato sociale. Insomma, la società e la storia bussano alla porta del giurista, ed esso non può fingersi sordo, o tentare ad abituarsi al rumore per non subirne la molestia”, Continuo e discontinuo nel diritto, in Grammatica e diritto, Milano, 1978, 89; cfr. pure Logica e diritto positivo in rapporto ad alcuni fenomeni giuridici anomali, in Archivio giuridico, 1935, 158 ss., ripubblicato in Diritto civile, metodo - teoria – pratica, Milano, 1951, 654; ed anche in Grammatica e diritto, cit., 179, dove si legge che “se un concetto giuridico è conforme al dato, non può essere negata da elementi razionali ricavati dal dato stesso: fino a quando è possibile perplessità o contrasto tra elementi forniti dal dato, il concetto non può essere accolto, e l’elaborazione deve ritenersi incompiuta o imperfetta” (pag. 191).

[84] Per i problemi della significazione: FALZEA, Introduzione alle scienze giuridiche, I, 4^ ed., Milano, 1992, 466 ss.

[85] PUGLIATTI, Valore conoscitivo e funzione pratica delle scienze particolari, in Grammatica e diritto, cit., 211. In tale contesto va inquadrata la controversia tra gli esegeti del diritto che, obbedendo ad una esigenza economica, si limitano al puntuale lavoro di interpretazione delle singole disposizioni ed i costruttori del sistema, che adempiono ad una più importante funzione pratica atteso che “preparano il cammino alla legislazione, segnano le vie maestre, che la legislazione deve seguire, se vuol soddisfare tale esigenze e raggiungere determinati fini: PUGLIATTI, Crisi della scienza giuridica, in Diritto civile, cit., 697 s., che così conclude: “il giurista può far sentire la sua voce, da ogni punto di vista disinteressata tranne uno, rispetto al quale egli dev’essere intransigente: la difesa della verità che la scienza si sforza quotidianamente di conquistare (pag. 699).

[86] PUGLIATTI, Logica e dato positivo in rapporto ad alcuni fenomeni giuridici anomali, cit., 655.

[87] Ma un sistema giuridico si può tentare di conoscere anche sotto un altro aspetto: scegliendo, cioè, una fase del suo sviluppo e rappresentandone istituti e principi in un tutto unitario (sistema), senza aver riguardo né ai precedenti né agli ulteriori destini degli stessi principi e degli stessi istituti. Tale è lo studio dogmatico del diritto: CHIAZZESE, Introduzione alla studio del diritto romano, cit., 41, e ciò al fine di sgombrare il campo tra la costruzione dogmatica volta alla soluzione di nuovi casi, “in ogni conoscenza propriamente scientifica del diritto, storia e dogmatica restano sempre vicendevolmente connesse e compenetrate, e l’una serve all’altra ne può, quindi, esistere una profonda scissione fra i due campi” (op. cit., 42).

[88] Il sistema è frutto di lentissima collaborazione, ed è l’aspirazione finale della scienza la quale dall’esame dei singoli istituti assurge ad una valutazione di insieme in cui non si perda la precisazione dei dettagli, ma che anzi sia stimolo alla loro rielaborazione, affinché tutti ne risultino coordinati e fusi, così, RAVÀ, L’interpretazione comparativa, in Studi in onore di Gioacchino Scaduto, vol. II, Padova, 1970, 524, che così prosegue: “il sistema non nasce perfetto come Minerva dal cervello di Giove. Per di più, oggi, non v’è neppure chi adesso lavori di proposito perché non v’è un ramo della nostra scienza che faccia della dogmatica il suo particolare oggetto. Il sistema si va formando casualmente per necessità di cose”; cfr. pure ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto romano, Torino, 1963, 73 ss. e 218 ss.

[89] FALZEA, Dalla scuola dell’apprendimento alla scuola dell’insegnamento, in Scritti in onore dell’istituto tecnico commerciale “Antonio Maria Jaci” di Messina nel CXX anniversario della fondazione, Messina, vol. I, 1982, 188.

[90] FALZEA, Dalla scuola dell’apprendimento, cit., 189, che così continua: “l’equilibrato rapporto tra le due forme del sapere, che eviti l’originario ed oggi riaffiorante predominio della astrazione scientifica, è una delle grandi conquiste della civiltà rinascimentale, che ha aperto la strada alla fondazione delle scienze applicate, anche se la non ancora declinante potenza del credo metafisico nella interpretazione della realtà ha reso allora ambiguo il percorso del nascente empirismo”.

[91] Il compito dell’interprete è anche la “ricerca del maggior significato utile della norma, che permette di individuare la vis espansiva di questa e la sua capacità di adeguamento alla realtà in evoluzione” tale compito deve essere sentito dall’interprete anche di fronte al comando normativo di data recente, principio questo riaffermato e sottolineato da NICOLÒ, Riflessioni sul tema dell’impresa e su talune esigenze di una moderna dottrina del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1956, 182 e ss. il quale, sin da allora, lamentava la “eccessiva timidezza” della dottrina e della giurisprudenza di fronte alla lettera della legge e rilevava che l’ansia di rinnovamento dei vecchi dogmi della civilistica ha trovato concreta realizzazione soltanto ad opera di pochi valenti giuristi: sul tema della proprietà PUGLIATTI, La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1954, e su quello dell’impresa SANTORO PASSARELLI (sin dal suo primo lavoro: L’impresa nel sistema del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1942, 1, 377 e ss.; ID., Dottrine generali del diritto civile, VI edizione, Napoli, 1959, pag. 88: “l’unità dell’azienda, e soprattutto dell’impresa, corrispondentemente alla qualità che le viene riconosciuta di organismo vivente, si rileva nella sua continuità grazie alla quale essa è insensibile sotto molteplici aspetti alle vicende giuridiche riguardanti la persona del titolare (artt. 2112, 2557 ss., 1330, 1722, 4° comma del codice civile) e della individualità che è tutelata come entità distinta all’individualità del titolare (artt. 2563 ss., 2598 cod. civ.)”).

[92] Primo fra tutti GRASSETTI, L’interpretazione del negozio giuridico, Padova, 1938, pp. 33, 34; ID., voce Clausola del negozio, in Enc. del dir., VII, Milano, 1960, 184, secondo l’A. l’art. 1363 cod. civ. detta il canone dell’interpretazione complessiva o meglio dell’unità dell’atto, e così pone per l’interpretazione del contratto (e, più in generale, del negozio giuridico) quello stesso elemento sistematico che l’art. 12 disp. prelim. del cod. civ. pone per l’interpretazione della legge, con riferimento alla “connessione delle parole”.

[93] Nella Relazione al re per l’approvazione del testo del codice civile, Roma, 1943, n° 22 così si legge: “in luogo della formula del progetto definitivo: principi generali del diritto vigente, che avrebbe potuto apparire troppo limitativa dell’opera dell’interprete, si è ritenuta preferibile l’altra: principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, nella quale il termine ordinamento risulta comprensivo, nel suo ampio significato, oltre che delle norme e degli istituti, anche dell’orientamento politico-legislativo statuale e della tradizione scientifica nazionale (diritto romano, comune, etc.) con esso concordante”.

[94] Sul concetto e sul contenuto di ordinamento giuridico: SANTI ROMANO, L’ordinamento giuridico, 1918, 2^ ed., rist., Firenze, 1951; ID., Frammenti di un dizionario giuridico, 1947, rist., Milano, 1953, per l’A. il punto di partenza non è costituito dalle norme, ma dalla società, più precisamente da ogni singola società nel suo stesso porsi, come organizzazione e come struttura: tali concetti sono definiti con il termine di “istituzione”, ed ancora il concetto di diritto deve contenere l’idea dell’ordine sociale, che ricomprende in se le norme, ma nel contempo le avanza e le supera, L’ordinamento giuridico, cit., 18 ss., 25 s.

PUGLIATTI, Grammatica e diritto, Milano, 1978, 33, nt. 56: la teoria istituzionalistica tendeva al mito della norma che ha generato un altro mito: quello dell’ordinamento; CALASSO, Storicità del diritto, Milano, 1966, 197. Per ROMANO, Frammenti di un dizionario giuridico, cit., 82 s. “ogni istituzione è un ordinamento giuridico, e ogni ordinamento giuridico è una istituzione”, che definisce come “ un’organizzazione che fissa i vari elementi di un ente, la posizione e la funzione di essi, nonché della unità che ne risulta, subordinandoli all’ente del quale vengono a far parte”, ne consegue che “la funzione” del diritto è quella del corpo organizzato, non già quella delle norme che ne sono “un prodotto o una deviazione”, PUGLIATTI, op. ult. cit., 35, nt. 59.

Nella cultura giuridica italiana la nozione di ordinamento giuridico tende a coincidere con quella più generale di diritto: FROSINI, Ordinamento giuridico (filosofia), in Enc. del dir., XXX, Milano, 1980, p. 639 e ss.; MODUGNO, Ordinamento giuridico (dottrine generali), Ibidem, 678; IRTI, Le leggi speciali fra teoria e storia, in L’età della codificazione, Milano, 1979. Sul punto, per concludere, giova riportare quanto scrive ORESTANO, Concetto di ordinamento giuridico e studio storico del diritto romano, in Jus, nuova sr., 1962, 35 ss., specialmente 38: “il concetto di ordinamento è pur sempre una astrazione, cioè un atto intellettivo, il risultato di una operazione del nostro pensiero, mediante la quale selezioniamo, da un complesso di situazioni, certi dati assunti come rappresentativi, ordinandoli tra loro secondo uno schema di costanza, e facendone delle coordinate di riferimento per la nostra esperienza: in ciò in nulla diverso, come struttura e funzione, da qualsiasi altro concetto elaborato dalla scienza del diritto per le sue prese di possesso delle realtà e per le sue costruzioni intorno ad esse”.

[95]La propriété est le droit de jouir et disposer des choses de la meniére la plus absolue, pourvu qu’on n’en fasse pas un usage prohibé par les lois ou par les réglements”.

[96]Le contrat est une convention par la quelle une ou plousiers personnes s’obligent, envers une ou plusiers autres, à donner, à faire ou à pas faire quelque chose”, ed i successivi articoli definivano nell’ordine: il contrat synallagmatique ou bilatérale (art. 1102), unilatéral (art. 1103), commutatif (art. 1104), de bienfaisance (art. 1105), à titre onéreux (art. 1106).

[97] Des personnes, des bien, et de différentes modifications de la proprièté, des differentes manières dont on acquiert la proprièté.

[98] Di contro nel ’900 si sono affermate varie figure di vita associativa organizzata, con una tendenza contraria all’indirizzo del codice Napoleone. È il fenomeno dei c.d. gruppi intermedi tra i soggetti e lo Stato, fenomeno questo tipico del diritto moderno e di indubbia rilevanza sociale. Si tratta di nuovi soggetti titolari di posizioni giuridiche autonome tali da escludere che il gruppo sia semplicemente una somma di soggetti (cfr. capitolo successivo).

[99] Gli articoli dal 17 al 31 delle disp. sulla legge in generale, sono stati espressamente abrogati dall’art. 73 L. 31 maggio 1995, n. 218, Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato; l’art. 31 riproduceva, in buona sostanza, il testo dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice del 1865.

[100] Savigny riteneva che il legislatore deve favorire lo svolgimento del diritto consuetudinario, non solo fornendo le norme di sanzione, ma eliminando i rami morti del diritto.

[101] Il diritto privato e i suoi attuali confini, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, I, 400.

[102] Per la difesa del giusnaturalismo cfr. le bellissime pagine di BARBERO, Sistema del diritto privato Italiano, vol. I, VI edizione, Torino, 1962, pag. 6 ss. della introduzione; in generale COTTA, Diritto naturale, in Enc. del dir., XII, Milano, 1964, pag. 647 ss.; di recente DENNINGER, Diritti dell’uomo e legge fondamentale, Torino, 1998; DONATI, Giusnaturalismo e diritto europeo, Milano, 2002.

[103] Da recente nel suo ultimo libro: Rights from wrongs: una teoria laica dell’origine dei diritti, codice edizioni, Torino, 2005, DERSHOWITZ si orienta contro le teorie di origine divina dei diritti o del diritto naturale, criticando in maniera vivace il naturalismo e la fondazione religiosa, entrambe troppo esterne al diritto per essere convincenti. Tuttavia neppure le teorie interne al diritto, di cui la più importante è quella del positivismo giuridico, appaiono per l’A. convincenti, atteso che le stesse non riescono a tenere conto delle ingiustizie proceduralmente rispettabili. A titolo di esempio, leggi formalmente perfette hanno discriminato e discriminano intere categorie di individui (si pensi alle leggi di condanna agli ebrei). Proprio da casi come questi ultimi prende spunto la tesi di DERSHOWITZ: i diritti traggono origine dalla esperienza delle ingiustizie subite.

[104] FIORAVANTI, La scienza del diritto pubblico, Milano, 2001. PUGLIATTI, sensibile ai segni dei tempi, scriveva nel 1935: “prevalendo gli interessi pubblici, debbono anche prevalere le norme di diritto pubblico, le quali poco a poco andranno permeando di sé tutto l’ordinamento giuridico, infiltrandosi ed espandendosi anche e largamente agli istituti di diritto privato, che ne vengono così profondamente trasformati (Istituzioni di diritto civile, I, Milano, 1935, 33 e ss.). L’esigenza della distinzione tra diritto pubblico e privato, viene enunciata, con riferimento al diritto come ordinamento, e più precisamente come sintesi dinamica necessaria, o come dialettica di due termini che, nella loro correlazione, costituiscono una unità vivente e vitale, un organismo (PUGLIATTI, Diritto pubblico e privato, in Enc. del dir., XII, Milano, 1964, 697, ed ivi letteratura ed è lecito parlare di invasione del campo del diritto privato ad opera del diritto pubblico o di una crisi del diritto privato ad opera del diritto pubblico (op. cit., 745; ID., La logica e i concetti giuridici, in Diritto civile, Milano, 1951, 688 e s.); GIORGIANNI, Il diritto privato ed i suoi attuali confini, cit., 1961, I, 400).

[105] SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali, cit., 23 s.; ID., Status familiae, in Saggi di diritto civile, I vol., Napoli, 1961; ALPA, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, Bari, 1993, in particolare 56 ss.; RESCIGNO, Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ., 1973, I, 213.

[106] NICOLÒ, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1962, 65, lo status non esprime una certa posizione del soggetto di fronte ad un bene, ma una posizione del soggetto di fronte ad altri soggetti, non però considerati come individui singoli, ma come una collettività più o meno organizzata (loc. cit.).

[107] ZIINO, Diritti della persona, cit., 374 ss., n. 57-60.

[108] CORASANITI, voce Stato della persona, in Enc. del dir., vol. XLIII, Milano, 1990, 948.

Sui rapporti tra status e contratto: RESCIGNO, L’autonomia dei privati, in Studi in onore di G. SCADUTO, II, Padova, 1970, 529 ss., l’A. rileva che dalla mobilità del contratto, così come è stato voluto dalla codificazione liberale, si ritorna alla rigidità degli status, “non già che la condizione sociale della persona ne domini tutta la vita ed il destino, ma il ritorno allo status viene inteso nel senso che per ogni settore di attività i contratti siano destinati a modellarsi secondo tipi e discipline che rispecchiano la posizione sociale delle parti (fino al punto di vedere nel contratto un mezzo tra i tanti in cui si esprime la politica economia dello stato)” (p. 546).

In particolare RESCIGNO si è occupato del significato che la parola status riveste nella storia del pensiero giuridico (Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1973, 126; ID., Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ., 1973, I, 221), soffermandosi in particolare sulla formula del MAINE, Movimento dallo status al contratto (MAINE, Ancient law (1861), introd. by M. MORGAN, London-New York, 1965, p. 99 s.), mettendo in luce come alla formula del MAINE è toccato il destino di essere ripresa e studiata soprattutto per mettere in evidenza una inversione di tendenza. Gli status, nel sistema di common law, vennero costituiti con riguardo a quelle situazioni di privazione o di limitazione della capacità di agire. Il movimento dallo status al contratto rimuove le negazioni o le limitazioni della capacità. I sistemi totalitari del nostro secolo hanno provocato un ritorno agli status. Giova a questo punto rilevare che lo status viene definito dal LALANDE (Dizionario, cit., 833), e solo in contrapposizione a contratto, come l’insieme dei rapporti legali che si stabiliscono tra uomini in assenza di ogni atto di volontà da parte loro, e di conseguenza della situazione singola che essi si trovano ad occupare nella organizzazione familiare, politica ed economica (uomo o donna, padre o figlio, padrone o schiavo, capitalista o salariato ecc.).

[109] PROSPERI, Rilevanza della persona e nozione di status, in Rass. dir. civ., 1997, 810 ss., il quale così conclude: “è innegabile che una società complessa e frammentaria come quella attuale si determini una continua espansione degli àmbiti di applicazione di un “diritto singolare”, il quale, benché finalizzato ad assicurare il rispetto dell’imperativo costituzionale che impone di rimuovere gli ostacoli che di fatto si frappongono all’eguaglianza dei cittadini, pone delicati problemi nell’individuazione del confine entro cui l’intervento autoritativo deve arrestarsi per non travolgere le istanze di libertà individuale, che implicano anche il diritto a veder riconosciuta la propria differenza, e altrettanto vero che non v’è alcuna necessità di ricorrere a vecchie o nuove formulazioni del concetto di status al fine di spiegare ragioni ed operatività nel sistema delle deroghe sempre più frequentemente poste all’operatività di eguaglianza formale, essendo una ovvia conseguenza del rilievo sostanziale che assume la persona umana nell’ordinamento di un moderno Stato sociale” (pag. 857).

[110] La tendenza a riconoscere agli status il ruolo di tutela di situazioni giuridiche di vita e di differenziazione delle posizione soggettive è stata messa in luce da: LA ROSA, in Minore età e soggettività, in soggetti e ordinamento giuridico, a cura di TOMMASINI, Torino, 2000, 13, che rileva come “la figura dello status viene utilizzata per le posizioni soggettive che esigono rafforzata protezione nella misura in cui il bisogno individuale di sicurezza prevale sulla tensione verso la libertà è [.....] oltre agli status ufficiali vanno, altresì, assumendo rilievo una molteplicità di status occulti, i “diversi”, i sieropositivi, i conviventi more uxorio, che rappresentano ancora oggi una forma di ghettizzazione di gruppi di concetti della società civile”.

Sulle controversie collettive che, con riferimento alla tipologia degli interessi coinvolti, si possono chiamare “di classe”: CHIARLONI, Appunti sulle tecniche di tutela collettiva dei consumatori, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, 1, 385 ss.

[111] Con il D.L. 30 gennaio 1979 n. 26 (convertito nella L. 3 aprile 1979 n. 95) è stata introdotta una ulteriore procedura concorsuale: l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, istituto ora disciplinato dal D. Lgs. 8 luglio 1999 n. 270 (ROSSI, Insolvenza, crisi di impresa e risanamento, Milano, 2003; BONFATTI e FALCONE, Le procedure concorsuali tra nuove frontieree prospettive di riforma, Milano, 2002) che persegue l’obiettivo del risanamento dell’impresa di grandi dimensioni atteso che sono coinvolti diritti primari come quelli dei lavoratori dipendenti, e patrimoniali: dei finanziatori, dei fornitori e dei risparmiatori che spesso hanno investito tutte le loro risorse (ALESSI, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, Milano, 2000; MAZZOCCA, L’amministrazione straordinaria della grandi imprese insolventi, Napoli, 2001).

[112] Esempio recente è Il D.L. 23 dicembre 2003 n. 347, convertito con modifiche con L. 18 febbraio 2004 n. 39, il c.d. “decreto parmalat” che detta “misure integrative e correlative della normativa vigente in materia di amministrazione straordinaria”, e che ha un ambito di applicazione più ristretto di quello del D. Lgs. 8 luglio 1999 n. 270, ed il programma di ristrutturazione prevede che il soddisfacimento dei criteri può avvenire attraverso un concordato la cui proposta deve essere autorizzata dal Ministro delle attività produttive (art. 4 bis, c. 1° e 2°) (FABIANI e FERRO, Dai tribunali ai ministeri: prove generali di degiurisdizionalizzazione della gestione delle crisi di impresa, in Fallimento, 2004, 132 ss.; BONFATTI, La procedura di ristrutturazione industriale delle imprese insolventi di rilevanti dimensioni (legge “Marzano”), Ibidem, 362 ss.).

[113] Si rinvia agli studi di RESCIGNO, Persona e Comunità, Bologna, 1966; ID., Capacità giuridica, in Nss. D.I., II, Torino, 1958 ss.; ID., Situazione e status nell’esperienza del diritto privato, in Attualità e attuazione della Costituzione, Bari, 1979, 226 ss.; ed anche BESSONE, FERRANDO, Persona fisica (diritto privato), in Enc. del dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, 193 ss., in particolare 205 ss.

[114] GABRIELLI-ORESTANO, Contratti del consumatore, Torino, 2000; DE CRISTOFARO, Difetto di conformità al contratto e diritti del consumatore, Padova, 2000; PODDIGHE, I contratti con i consumatori, Milano, 2000; Codice del consumatore e dell’utente, a cura di DE MARZIO, Milano, 2000.

Di contro la C. Giust. C.E., con sentenza 9 settembre 2004 in causa c. 70/03 (Giust. civ., 2005, 1, 867) ha dichiarato la inapplicabilità della regola di interpretazione favorevole al consumatore nelle c.d. “inibitorie”.

[115] La subfornitura. Commento alla legge 18 giugno 1998 n. 192, a cura di ALPA e CLARIZIA, Milano, 1999; NICOLINI, Subfornitura e attività produttive, Milano, 1999; Subfornitura, a cura di V. FRANCESCHELLI, Milano, 1999.

[116] S. ROMANO, voce Abuso del diritto (diritto attuale), in Enc. del dir., vol. I, Milano, 1958, pag. 166; RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205; ID., L’abuso del diritto, Bologna, 1998; SACCO, L’abuso del diritto soggettivo, in Trattato di diritto civile, diretto da SACCO, Torino, 2001; CASERTA, Gli atti emulativi, in Nuova giur. civ. comm., 1998, II, 225 ss.

[117] S. ROMANO, Buona fede (Dir. priv.), in Enc. del dir., vol. V, Milano, 1959, 677 ss.; CARUSI, voce Correttezza (Obblighi di), in Enc. del dir., vol. X, Milano, 1962, 729 ss.; BRECCIA, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1968; PIETROBON, Il dovere generale di buona fede, Padova, 1970; BIANCA, La nozione di buona fede come regola del comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, 1, 205 ss.

[118] La espropriazione dei beni che interessano la produzione nazionale o di prevalente interesse pubblico viene considerata dalla dottrina una sottospecie della più ampia categoria della espropriazione per pubblica utilità: DE MARTINO, Della proprietà, IV ed., in Commentario del codice civile SCIALOJA-BRANCA, Bologna-Roma, 1976, 174.

[119] D. Lgs. 29 ott. 1994 n. 490 T.U. delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali a norma dell’art. 1 L. 8 ott. 1997 n. 352. Il D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio” art. 2, comma 2°), impone una serie di limiti al proprietario al quale il Ministero per i beni e le attività culturali ha notificato la c.d.  “dichiarazione di interesse culturale (artt. 10 e 11). Aa. Vv., Testo unico sui beni culturali, Milano, 2000.

[120] DE MARTINO, Della proprietà, cit., 214, l’A. ritiene che la norma sulla minima unità culturale ha carattere inderogabile.

[121] MOSCHELLA, voce Bonifica, in Enc. del dir., vol. V, Milano, 1959, 531.

[122] DE MARTINO, op. cit., 252.

[123] GROSSO, voce Acquedotto, in Enc. del dir., vol. I, Milano, 1959, 531 ss.

[124] GIANNELLA, VITUCCI, voce Passaggio coattivo in Enc. del dir., vol. XXXII, Milano, 1982, 152 ss.; BURDESE, Servitù prediali, in Trattato di diritto civile, diretto da GROSSO e SANTORO-PASSARELLI, vol. III, Milano, 1960, 123 e ss., che ritiene di notevole difficoltà interpretativa la dizione dell’art. 1051 cod. civ. (pag. 152).

[125] BRANCA, Servitù prediali, VI ed., in Commentario del codice civile a cura di SCIALOJA – BRANCA, libro III, Della proprietà (art. 1027-1099), Bologna-Roma, 1987; PALAZZOLO, Servitù coattive, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVIII, Roma, 1992, 1 e ss.; COMPORTI, Le servitù prediali, in Trattato di diritto privato, diretto da RESCIGNO, Proprietà, VIII, t. 2, Torino, 1982; ID., voce Servitù (diritto privato), in Enc. del dir., vol. XLII, Milano, 1990, 274 e in spec. 296 ss.; BURDESE, Servitù, cit., 163.

[126] GROSSO e DEIANA, Le servitù prediali, III ed., in Trattato di diritto civile italiano diretto da VASSALLI, V, t. 1, Torino, 1963, 1835 ss.; BRANCA, Servitù prediali, cit., 260; BURDESE, op. cit., 147.

[127] Di contro, in ordine alla portata della dichiarazione di volontà del singolo, vale un diverso principio: quello dell’affidamento per la protezione della buona fede del terzo che è stato diligente nell’informarsi. La volontà espressa prevale sulla volontà effettiva quando con la dichiarazione è stata suscitata nel destinatario una aspettativa legittima, tenendo conto delle circostanze oggettive. Il destinatario della dichiarazione ha fatto assegnamento sulla stessa comportandosi in conseguenza (artt. 1338, 1394, 1398, 1415, 1431 cod. civ.). Il principio trova applicazione nei rapporti fra partecipanti al negozio in via di costituzione, ed, in particolare, fra contraenti, atteso che l’esigenza di tutela del terzo prevale su quella del dichiarante, operando diversamente verrebbe pregiudicata la certezza del commercio giuridico (bona fides trantundem praestat quantum veritas), MARINI, Promessa e affidamento nel diritto dei contratti, Napoli, 1995; SACCO, voce Affidamento, in Enc. del dir., vol. I, Milano, 1958, pag. 661; PALAZZO, Promessa gratuita e affidamento, in Riv. dir. civ., 2002, I, 18.

[128] Nei periodi di creatività del diritto, come ad esempio il pretorio romano e l’attività dei giureconsulti medievali, l’interpretazione e il c.d. diritto giudiziario ebbero il massimo sviluppo, di contro, “nelle epoche di stasi, cioè quando un determinato sistema giuridico si impone (l’epoca giustinianea o la napoleonica), l’interpretazione viene contenuta entro limiti letterali e meramente esegetici, PARESCE, voce Interpretazione (filosofia), cit., 224.

[129] Basti porre attenzione ai danni in materia civile e al problema della entificazione del danno biologico e delle sue varie connotazioni. Dopo un iter di corsa in avanti e di pause, di contrastati orientamenti della giurisprudenza di merito e di legittimità, dopo molteplici interventi della Consulta e della dottrina, la Cassazione ha sganciato dal paradigma dell’art. 2043 cod. civ. la tutela della integrità psicofisica della persona ritenendola fondata sul combinato disposto degli artt. 2059 c.c e 32 cost., ed ha ritenuto, di conseguenza, non necessaria la costruzione della ipotesi di danno evento o di un tertium genius di danno rispetto al danno patrimoniale o al danno morale soggettivo (Cass. 20 febbraio 2004 n. 3399, in Foro it., 2004, I, 1059).

[130] RUSSEL è stato uno degli Autori che ha esercitato una grande influenza sull’analisi del linguaggio, anche se l’esigenza puramente analitico-metodologica, come tecnica di consapevolizzazione linguistica, è strettamente fusa per non dire subordinata a preoccupazioni propriamente filosofiche (The philosophy of logical atomism, in Monist, 1919, pag. 364; cit. da BLACK, Linguaggio e filosofia, tr. it., Milano, 1943, pag. 141; FILIASI CARCANO, voce Linguaggio, in Enc. fil., vol. III, Firenze, 1968, 1584 ss.

L’orientamento logico-matematico dell’analisi si trasmette, attraverso RUSSEL, ma soprattutto attraverso l’influsso esercitato dal Tractatus logico-philosoficus, di WITTGENSTEIN, al neopositivismo (trad. it., con testo e note di COLOMBO, Milano, 1954).

[131] Il termine semantica è stato coniato da BREAL, (Essai de la sémantique, Parigi, 1897): Σημαντική τέχνη (LALANDE, voce Semantica,  in Diz. crit. di fil., cit., 788).

[132] PUGLIATTI, Sistema grammaticale e sistema giuridico, in Grammatica e diritto, Milano, 1978, p. 32, n. 52, che cita il Tractatus di WITTGENSTAIN.

Sui rapporti tra linguaggio comune e quello scientifico: PRETI, Linguaggio comune e linguaggi scientifici, Roma-Milano, 1953; PARESCE, voce Interpretazione (filosofia), cit., 224, n. 233; MARCONI, Il mito del linguaggio scientifico, Milano, 1971. In generale: PAGLIARO, La parola e l’immagine, Napoli, 1957; ID., Il linguaggio come conoscenza, Roma, 1953; ID., Nuovi saggi di critica semantica, Messina-Firenze, 1958.

[133] SERRAO, Interpretazione della legge (diritto romano), in Enc. del dir., vol. XXII, Milano, 1972, 249.

[134] Incivile est nisi tota lege perspecta una aliqua particula eius proposita iudicare vel respondere (D. 1, 3, 24).

[135] Scire leges non hoc est verba earum tenere, sed vim ac potestatem (D. 1, 3, 17).

[136] S. RICCOBONO, Letture londinesi (maggio 1924),Diritto romano e diritto moderno”, Torino, s.d. ma 2004, il quale così prosegue: “non si dica che questa sia una disquisizione retorica. Cicerone attesta controversie pratiche nell’interpretazione di leggi, testamenti e di stipulazioni. Delle leggi non ci occupiamo, perché il rilievo che la giurisprudenza romana diede alla volontà del legislatore di fronte ai verba è posto in massime incisive note a tutti........”; CICERO, Part.or. 136: “non inverbis ac litteris vim legis positam esse”; de inv. I, 70; QUINTILIANO, Decl.331:”sed ipsa vi ac potestate”; CELSO, fr. 17 D. 1.3.: “scire leges non hoc est verba earum tenere sed vim ac potestatem”.

[137] Si rinvia ad ARISTOTELE, Della interpretazione, V ediz., BUR, Milano, 2001 a cura di MARCELLO ZANATTA.

[138] Dell’interpretazione, cit., 5, 10-15, pag. 84 s. il cui testo così recita: ανάγκη δε πάντα λόγον αποφαντικον εκ ρήματος ειναι η πτώσεως και γαρ ο του ανθρώπου λόγος, εαν μη το εστιν η εσται η ην η τι τοιουτο προστεθη ουπω λόγος αποφαντικός.

L’anailisi semantica di Aristotele si indirizza “verso il valore logico della frase e, quale che sia questa logica, essa sarà sempre un tipo di indagine, che cerca il rigore e la coerenza e nega la possibilità di significati molteplici e contrastanti”: PARESCE, voce Interpretazione, cit., 156.

PAGLIARO, voce Linguaggio, in Enc. filosofica, vol. III, Firenze, 1967, 1605, ritiene che: “quella della arbitrarietà del segno è un assioma della moderna linguistica (necessario è il segno nel sistema), ma il riconoscimento della sua verità risale ad Aristotele, il quale affermò che il nome è significante ad placitum (κατά ξυνθήκην: De int., 16 a)”, ed anche pag. 1599.

[139] TARELLO, L’interpretazione della legge, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di CICU, MESSINEO, continuato da MENGONI, vol. I, t. 2, Milano, 1980, 4.

[140] TARELLO, L’interpretazione, cit., 3.

[141] PUNZI, Jura novit curia, Milano, 1965; in ordine alla mancata conoscenza della legge straniera l’A. rileva che, tralasciando la distinzione tra fonte e norma, e non avvertendo che la dimostrazione dell’esistenza della singola fonte normativa non esaurisce la funzione del giudice, ci si è sempre domandato quale sia la conseguenza della mancata conoscenza della fonte straniera, mentre il problema per il giudice è piuttosto di rilevare e determinare la norma “(pag. 159), e sussiste la “possibilità di operare la rilevazione della norma attraverso l’esame penetrante e a un tempo complessivo dell’ordinamento le cui disposizioni sono state richiamate”(pag. 160).

[142] BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, Milano, 1955, ed. corretta ed ampliata a cura di CRIFÒ, Milano, 1960.

[143] Op. cit., 127; cfr. supra nt. 5, 7 e 8 del Cap. I.

[144] KALINOWSKI, Introduzione alla logica, a cura M. CORSALE, Milano, 1971, 79.

[145] GROSSI, Le situazioni reali nell’esperienza giuridica medievale, Padova, 1968, 3 s. L’A. riporta una puntualizzante espressione del BLOCH (Apologie pour l’histoire ou metier d’historien, Paris, 3^ ed., 1959: <<Au grand déséspoir des historiens, les hommes n’ont pas coutume, chaque fois qu’ils changent de moeurs, de changer de vocabulaire>>) e la continuità dell’istituto, prosegue il GROSSI, rischia di divenire la mera continuità di un nome (GROSSI, Le situaz., cit., 3, 4; ID., Locatio ad longum tempus, Napoli, 1963, 31). Si pensi, in proposito, alla tendenza della locatio ad longum tempus a trasformarsi da rapporto obbligatorio in rapporto reale (nel diritto intermedio), ed alla peculiarità che essa veniva considerata come rapporto reale se stipulata ad longum tempus, come rapporto obbligatorio se invece stipulata ad modicum tempus (GROSSI, Locatio, cit., 29 ss.). La dottrina giuridica ha sottoposto a critica la c.d. entificazione dei concetti giuridici: ORESTANO, voce Azione, in Enc. del dir., vol. IV, Milano, 1959, 811 ss.; ID., Diritti soggettivi e diritti senza soggetto. Linee di una vicenda concettuale, in Jus, 1960, 190 e ss.

[146] Cfr. KALINOWSKI, Introduzione, cit., 79.

[147] Cfr. KALINOWSKI, Introduzione, cit., 72.

[148] La definizione è da intendere come ricerca del senso del termine e del concetto per la eliminazione di confusioni e di incertezze, come mezzo quindi per la ricerca della verità. Sovvengono le parole di PASCAL: <<desideriamo la verità e non troviamo in noi che incertezza>> (pensiero n. 387, secondo il criterio logico di raggruppamento del BRUNSCHVICG).

Sotto il profilo della logica generale, la definizione, considerata come operazione dello spirito, consiste nel determinare la comprensione caratterizzante un concetto (LALANDE: Dizionario critico di filosofia, Milano, 1971, 188). Per il KALINOWSKI, Introduzione, cit., 72, vi sono definizioni tanto nei campi del sapere reale (per es. Diritto), che in quelli del sapere formale (per es. Matematica). In entrambi i casi le definizioni si collocano a quel livello dell’attività intellettuale in cui il pensiero è indissolubilmente unito alla parola. Lo stesso termine <<definizione>> in senso proprio designa la caratterizzazione di una espressione: per esempio concetti giuridici che costituiscono il significato di espressioni definite, ovvero di definizioni di cose (loc. ult. cit.).

Sul brocardo omnis definitio in iure civili periculosa est: parum est enim, ut non subverti posset (D. 50, 17, 202 JAVOLENUS, 11 epist.), cfr., ZIINO, Diritti della persona e diritto al (pre)nome. Riferimenti storico-letterari e considerazioni giuridiche, in Giust. Civ., 2004, II, 368 e in part. nt. 39.

[149] Cfr. HART, Contributi all’analisi del diritto, a cura di V. FROSINI, Milano, 1964, 43, n. 1.

[150] Cfr. HART, Contributi, cit., 45.

[151] Il diritto viene rappresentato non come il terreno della conflittualità, ma come l’area della cooperazione sociale con l’appello alla ragione perché i conflitti interpretativi tra lex e jus, tra due interpretazioni dello stesso valore fondamentale, tra le fonti del diritto e la pluralità degli ordinamenti, tra il diritto vivente e la creatività della giurisprudenza, tra il diritto comunitario e il pluralismo giuridico, possono essere composti “con il ricorso alla ragionevolezza, ai fini e ai principi che guidano la giuridicità” così testualmente: VIOLA, ZACCARIA, Le ragioni del diritto, Bologna, 2003; IIDD., Diritto e interpretazione, Bari, 1999.

[152] Oggetto di interventi del legislatore: art. 117 L. 19 maggio 1955 n. 151; art. 2 L. 23 novembre 1971 n. 1047 e di varie pronunce della Corte Costituzionale: sent. 30 dicembre 1987 n. 621, 30 giugno 1988 n. 748, 3 luglio 1997 n. 216, 19 giugno 1998 n. 228; AMBROSINI, Dichiarazione di paternità ed interesse del minore, nota a C. Cost., 20 luglio 1990 n° 341, in Riv. dir. fam., 1990, 1084.

[153] Fenomeno questo messo in luce, come noto, da IRTI, L’età della decodificazione, Milano, 1989, ID., La cultura del diritto civile, Torino, 1990; ID., Società civile. Elementi per una analisi del diritto privato, Milano, 1992; ID., Codice civile e società politica, Roma, 1995, l’A. ritiene che il codice civile trae nuova linfa dal legame con la libera Europa della concorrenza e degli scambi, e guadagni un plusvalore politico cioè si configura, o torna a configurarsi, come statuto della particolarità e degli interessi economici affidati all’autonomia dei singoli; ID., L’ordine giuridico del mercato, Roma, 1998. Cfr. anche RESCIGNO, Introduzione al codice civile, Roma, 1991. Il sistema codicistico forte dell’ideologia e del liberalismo, è affrancato dall’ombra di valori diversi, mostra e conferma la capacità di durare, di attraversare regimi e periodi politici di differenti indirizzi. Il codice civile si raccorda ai principi dei trattati europei.

[154] IRTI, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004.

[155] Quanto precede trova conferma già nel titolo dell’opera: Nichilismo giuridico, dove, a proposito della formazione del giurista nell’Università del “saper fare”si legge: “il diritto ha perduto ogni garanzia di unità. Non soltanto le antiche garanzie teologiche e metafisiche, ma anche le garanzie terrene e storiche. Il diritto, distaccandosi dalla sovranità territoriale degli Stati, non ha più un centro: si affollano e sovrappongono norme nazionali, leggi regionali, direttive europee, dichiarazioni universali. La perdita di centro è perdita di un senso complessivo. Tirato in alto verso la latitudine globale; tirato in basso verso la particolarità dei luoghi; conteso fra sconfinatezza e confini, tra uniformità e differenze; il diritto ci appare tutto casuale, contingente, consegnato per intero alle forze della volontà. L’acutezza precorritrice di Federico Nietzsche aveva già affermato, nell’aforisma 459 di Umano, troppo umano, questo pensiero: <<... noi tutti non abbiamo più un senso tradizionale del diritto, perciò dobbiamo accontentarci di diritti arbitrari, che sono espressioni della necessità che esista un diritto>> (pag. 71 s.). E ancora: “la scienza non può recare ordine e unità dove domina l’arbitraria casualità..... il sapere giuridico si frange così nella molteplice specialità dei saperi” (pag. 72): quasi uno scetticismo che esclude la verità quale valore oggettivo.

Non condivide del tutto l’analisi che precede: DILIBERTO, Sulla formazione del giurista (a proposito di un saggio recente), in Riv. dir. civ., 2005, 2, 109 secondo l’A., invece, il diritto europeo dovrà convivere con “i diritti locali (o nazionali che dir si voglia, per ciò che varranno queste espressioni in futuro), ma che potrà affermarsi solo se di essa si riaffermeranno con la necessaria determinazione e con altrettanta capacità scientifica, appunto i comuni fondamenti: non già, dunque, un nuovo codice civile europeo, di cui ..... appaiono velleitari, ancorché generosi i primi tentativi sin qui varati, ma, appunto, una serie di principi, regole e categorie generali” (pag. 115).

[156] Fenomeno messo in luce dall’Autore “giurista colto ed arioso”, così definito da FALZEA nell’Atto negoziale nel sistema dei comportamenti giuridici, in Riv. dir. civ., 1996, I, 3. IRTI affronta la problematica in particolare nel saggio: L’età della decodificazione, Milano, s.d. ma 1979 (già prima in Diritto e società, 1978, 613 ss.); ampiamente recensito da MODUGNO, Decodificazione, pluralità di micro-sistemi, uguaglianza (a proposito di un libro di Natalino Irti), in Giust. Civ., 1980, II, 289: il processo di decodificazione iniziato dopo la prima guerra mondiale acquista “una giustificazione ed una significazione: non è più segno di disfacimento e di crisi, ma di ricostruzione e di programma”. NICOLÒ, voce Diritto civile, cit., a proposito della decodificazione parla del “malinconico tramonto di un’epoca” (p. 909).

Ma riportare il “diritto” alla realtà naturale, ripudiando il “positivismo”, che lo richiude nel codice, reso a un tempo culla e tomba di questa gran legge che ci sovrasta, senza un anelito agli spazi dorati dal sole, non vuol dire, d’altro canto, imparentarsi col “giusnaturalismo”; come ripudiare il “positivismo” non vuol dire negare il “diritto positivo”. Tanto poco c’è corrispondenza fra “diritto naturale” e “giusnaturalismo”, quanto poca ce n’è fra “diritto positivo” e “positivismo giuridico”, così testualmente BARBERO, Sistema del diritto privato italiano, cit., 23.

Per i profili storici: PETRONIO, La lotta per la codificazione, Torino, 2002; l’A. prende in esame il problema: dalle codificazioni ai codici e dai codici ai concetti di codice.

[157] “I codici civili assumono una diversa funzione. Essi rappresentano non più il diritto esclusivo ed unitario dei rapporti privati, ma il diritto comune, cioè la disciplina di fattispecie più ampie e generali”, come scrive sul punto testualmente NICOLÒ; Esperienza scientifica, cit., 11: “Non sembra siano emerse nuove problematiche generali se non quella della decodificazione, che però è un falso problema, se è vero che tale fenomeno l’aveva già registrato Locrè e, se mai, che esso si risolve nell’assegnare al giurista il compito di ricondurre ad unità il sistema, che non è certo una novità” (pag. 5).

[158] L’età della decodificazione, cit., 17; per SCADUTO Sulla tecnica giuridica, in Riv. dir. civ., 1927, 239 (ristampato in SCADUTO, Diritto civile, a cura di A. PALAZZO, Città della Pieve (Perugia), 2002, vol. II., 691 e ss.): “non è possibile fare a meno della tecnica giuridica, giacché essa costituisce la stessa scienza del diritto”....... “e che rientra nella tecnica legislativa la formulazione della norma nei termini che le sono propri” (op. cit., 241, nt. 3) “....... le finzioni interpretative invece mancano di giustificazione, quando siano basate su motivi di opportunità perché l’interprete  non può compiere quelle valutazioni di opportunità che rientrano nei poteri del legislatore” (op. loc. ult. cit.).

Sul punto della tecnica legislativa alle volte andata a ramengo: PUGLIATTI, Aspetti nuovissimi di tecnica legislativa, in Studi in onore di Francesco Santoro-Passarelli, Napoli, 1972, vol. III, 862 ss. Secondo l’A. la L. 5 giugno 1967, n. 431 (che introduceva con novella la adozione speciale) costituisce un ricco campionario dello spregio per la terminologia tecnica. In particolare la legge parla di uno “stato di adottabilità”, con un espressione barocca, nella quale è inserita la parolastato”, che costituisce uno dei termini più compromessi e discussi del diritto delle persone e del diritto di famiglia, con riflessi anche nel campo del diritto internazionale privato e del diritto penale”. L’A. prende in esame anche altre leggi: la L. 31 dicembre 1962 n° 1860, sull’impiego pacifico della energia nucleare, ed il  D.P.R. 13 febbraio 1964 n° 165, sulla sicurezza degli impianti e la protezione sanitaria dei lavoratori e delle popolazioni contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti derivanti dall’impiego pacifico dell’energia nucleare (cfr. più avanti nt. 41).

[159] FALZEA, Dalla scuola dell’apprendimento alla scuola dell’insegnamento, in Scritti in onore dell’Istituto tecnico commerciale “Antonio M. Jaci” di Messina nel CXX anniversario della fondazione (1862 – 1982), Tomo I, Messina, 1982, 193.

[160] IRTI, L’età della codificazione, cit., 25.

[161] “Dovunque è un metodo, un procedimento, ivi è una tecnica” ed ancora la tecnica giuridica può distinguersi anzitutto in tecnica legislativa e tecnica interpretativa: la prima è relativa ai regolamenti dei bisogni della vita sociale, la seconda abbraccia tutti i mezzi di interpretazione ed applicazione del diritto”: SCADUTO, Sulla tecnica giuridica, in Diritto Civile, a cura di A. PALAZZO, t. 2, Perugia, 2002, p. 691 e già in Riv. dir. civ., 1927, 225; BIONDI, Scienza giuridica e linguaggio romano, in Jus, 1953, 13 ss. Per FALZEA: il criterio fondamentale sta nell’attenzione che l’interprete deve porre alla duplice componente di ogni fatto normativo: la componente formale, costituita dall’aspetto esteriore con il quale si presenta all’osservazione dell’interprete il fatto normativo; e la componente sostanziale “costituita dalla situazione di fatto che rappresenta il referente necessario di ogni regola giuridica. Dalla scuola dell’apprendimento, cit., 194.

[162] PUGLIATTI ritiene che è vano polemizzare sulle formule "interpretazione storico-evolutiva", "interpretazione teleologica", "uso alternativo" perché il diritto e la considerazione dei suoi valori vanno apprezzati nel complesso del loro ciclo vitale e con i requisiti che deve presentare l'attività di tutti gli operatori. L'A. così continua: "piuttosto è da tenere presente che le dette formule si prestano tutte, senza eccezione, ad essere polarizzate in opposte direzioni, secondo il modo con cui vengono adoperate e quindi sono strumenti ambigui e pericolosi se asserviti a questa o a quella tendenza particolare o addirittura personale", Il diritto ieri, oggi, domani, in Quaderni per la didattica e la ricerca, n° 9, Milano, 1993, 19.

[163] Presentazione, in Scritti in onore (rectius in memoria) di Pugliatti, vol. I, t. 1, Diritto civile, Milano, 1978, VIII; “il giurista non può perciò dimenticare, se vuole fare veramente opera di scienza e non vuole fare il giornalista o il politologo, che egli ha dati limitati e che la sua attività è condizionata al rispetto della volontà che si esprime attraverso la norma”: così testualmente NICOLÒ, citato da FALZEA, Dalla scuola dell’apprendimento, cit., 196. A proposito della proprietà: il diritto dei diritti, e delle spinte sociali ed economiche dirette ad alterarne ed a modificarne la natura giuridica, SANTORO PASSARELLI scrive che non si potrà arrivare alla trasformazione della proprietà da diritto soggettivo a funzione sociale – i due termini sono incompatibili come aveva avvertito Pugliatti – senza un mutamento dell’attuale assetto costituzionale, L’opera di Salvatore Pugliatti, La proprietà, in Riv. dir. civ., 1978, I, 575. “Chi non ricorda, ad es., la qualità attribuita al diritto di proprietà di essere elastico? La proprietà appare come un corpo che nel suo stato naturale esplica tutte le sue facoltà. I singoli diritti reali, invece, comprimono questo corpo senza alterarlo”: SCADUTO, Sulla tecnica legislativa, cit., 243.

[164] PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Università degli Studi di Camerino, Scuola di perfezionamento in diritto civile, JOVENE, s.d., 257 e ss.; in particolare sull’intuitus personae e la rilevanza della persona: GALASSO, La rilevanza della persona nei rapporti privati, Napoli, 1974.

 

 

 

Data di pubblicazione:  27 ottobre  2005